-Donna Mariantuania bongiorno!
Allura, c'aju pemmu vi fazzu oje?
Ma vui, sempe lu stiassu puzzuniattu mi portati?
Chistu, oramai, este buano sulu 'mu chjantati 'u petrusinu!
Este tuttu cunzumatu, cuamu la sola di li scarpi mia!
Li manici, a furia pemmu saldu, si ridduciru a dui muzzuni!
Lu stagnu, ccà, non sacciu cchjiù duv'aju 'mu lu miantu!
Ccà spenditi sulu sordi!
Sentiti a mia, cangiativillu cû chista coddareja nova nova!
Mi meravigghju di vui chi siti puru 'na majistra!
Pezza ca ti ripezza, quandu all'urtimu, nescia 'n'emerita schifezza!
Puru vui lu diciti: duve orditu non c'è, no' nci po' essere mancu trama!
Lu viditi 'stu pistuni?
Batti ca ti ribatti, este tuttu cunzumatu!
Cchjù la rami è vecchia e cchjù si pista!
-Aviti ragiuni Mastru Nicola! Lu niru di li vrasi non appara li pertusa!
Giovanni Luzzi
Dedicata a Sandro Rottura -'u figghju da Majistra- per il suo compleanno.
Ad maiora
Vinne 'a Lambretta?
No'! Ancora no'!
Allura sbrigati, ca' mo' arriva! Fanci puastu 'nto catuaju pemmu scarricannu i fusti! E mi raccumandu, nommu ruppanu nente!
Va buanu, arriipu tuttu! Tu, no' ti proccupare!
Ma, quandu cazzu arriva stú benedittu Peppinu?
È cchjù i n'ura c'aspiattu! Nommu 'nci succediu 'ncuna cosa? Vaju 'u viju! Tu aspetta ccá!
(Scendendo, nella viuzza dietro l'angolo, vede la Lambretta mezza ribaltata.)
Peppinu! Peppinu! Chi ti succediu? Fujiti cristiani fujiti! Peppinu duve sii? Rispundi!
Oh Gesù! Peppinu rispundi! Fujiti gianti!
Peppinu rispundi! Peppinu, Peppinu! Duva sii?
(Cominciano ad arrivare persone, tutte allarmate vedendo la Lambretta mezza accappottata.)
Ma ccá dinta Peppinu no' 'nce'! Peppinu! Peppinu! Oh Madonna mia! Duv'e' Peppinu?
Tutti chiamano: Peppinu! Peppinu!
E Peppinu nente!
(Ad un certo momento una voce flebile, molto flebile, si fa largo tra le grida...)
Ccittu! Ccittu! Stati tutti ccittu! No' parrati!
... c c à ... s u g n u ... c c à ...
... a j u t a t i m i c r i s t i a n i ... a j u t a t i m i ...
I sutta! I sutta! Sta 'ccá sutta!
Oh Madonna mia! È di sutta, sutta e fusti!
Peppinu! Peppinu! Sii vivu? Cuamu stai?
... a j u t a t i m i ... a j u t a t i mi ... m u a r u ...
No', no'! No' morire! Mo' t'ajutamu!
Si, si! Mo' t'ajutamu! No' morire!
Cacciati 'sti fusti! I fusti! Cacciamu i fusti!
(Per la posizione inclinata i fusti sono tutti incastrati tra di essi, uno sopra l'altro.)
I fusti, i fusti! Tiratili! Movimundi mannaja lu cui! Cacciamu i fusti!
Ma i fusti nente, no' si movanu!
Oh cazzu benedittu! Stí fusti sugnu tutti 'ncastrati!
Pigghjati 'ncuna cosa! 'Na pala! 'Nu marruggiu! Datimi 'nu marruggiu! 'Nu marruggiu! Cuamu cazzu s'incastraru? Peppinu tianiti forte! Mo' cacciamu i fusti! Peppinu rispundi! Peppinu!
... s i ... s i ... i ... f u s t i ...
È vivu! È vivu! Peppinu è vivu!!
Nu' fiarru! Pigghjati nu' fiarru! 'Nci vole nu' fiarru!
Nente! I fusti sempe 'ncastrati sugnu!
Prova tu ca' pruavu io, nente!
Ribaltamu 'a Lambretta!
Ribaltamu 'a Lambretta!
No! No! Chi cazzu haciti! Accussí 'u 'mmazzamu du tuttu! S'impitta! No' viditi c'accussí s'impitta? S'impitta sutt' e fusti! Oh Madonna mia! Cuamu si po' fare?
... d'arriadu 'na vuci ...
I margheriti ... i margheriti! Apriti i margheriti! Svacantati i fusti! Svacantati i fusti!
Sii! Sii! Svacantamu i fusti! I fusti svacantati no' puannu 'cchjiú 'mpittare!
Svacantamu i fusti?? Cuamu svacantamu i fusti!! Nooo! Nooo! Chi cazzu jati diciandu? I fusti nooo, nooo! Né svacantati! E l'uagghju mio?? È l'uagghjju mio!! Nooo! Nooo! Peppinu! Peppinu! Niasci i juacu! Niasci i jocassutta! Forza! Niasci i juacu! No' mi jettati l'uagghjju! È l'uagghjju mio!! Peppinu! Peppinu! Si mi jettanu l'uagghju io t'ammazzu! Sii t'ammazzu! Io t'ammazzu!
Io t'ammazzu cû li mani mia! Accussì t'impari pemmu guidi 'a Lambretta sempe 'mbriacu, cazzu!
Giovanni Luzzi
27.04.2022 scritta per il compleanno del mio amico Pasquale Rosano
Nell’entroterra calabrese esistono alcuni piccoli borghi disabitati, dove non è facile arrivarci, sia perché sorgono in luoghi impervi sia per le poche strade di accesso, solitamente difficili da percorrere. Ce ne sono anche altri ubicati in località facilmente raggiungibili in cui tuttora vive un numero molto ridotto di persone, in prevalenza anziane.
Dei primi, oramai senza più vita, solo le mura sgretolate possono essere i testimoni muti della loro storia, mentre di molti dei secondi si ha l’impressione che si ignori l’esistenza tant’è impressionante lo stato di abbandono in cui si trovano.
Per i primi, purtroppo, a causa dell’assoluta mancanza delle tracce di coloro che ci hanno vissuto, è ormai del tutto inutile qualsiasi ricerca volta a reperire elementi necessari per fare una ricostruzione delle vicende umane, piccole o grandi, che li hanno segnati.
Nei secondi, malgrado la situazione di noncuranza, c’è ancora chi non è disposto a rimettersi alla fatalità di vedere il luogo natio subire la stessa sorte e con esso assistere alla scomparsa del patrimonio avito, un patrimonio legato ai valori e alle tradizioni in cui è racchiusa tutta la saggezza delle vecchie comunità contadine locali.
È il caso di Limpidi, con un passato pieno di vita, dove oggi le poche persone che vi abitano lottano strenuamente affinché con il paese non muoia anche la memoria delle loro radici.
È qui, infatti, che un appuntamento festivo, una tradizione sentita in maniera forte e radicata, che trova il suo principio nell’antichità, rivive e torna puntualmente alla ribalta grazie alla pervicacia delle donne, coadiuvate finanziariamente dai pochi nuclei familiari scampati alla “falcidia” dello spopolamento.
Si tratta di una usanza “nobile”, inusuale rispetto alla cultura di vita d’un tempo, che nei secoli, ogni 19 marzo, ha visto i limpidesi tralasciare tutte le altre attività per porgere la mano ai poveri, ai senza voce, al cosiddetto sottoproletariato; di una consuetudine conosciuta nel dialetto locale come “lu cumbitu”, ossia l’invito: l’invito rivolto a costoro a convergere a Limpidi, nel giorno dedicato al loro Santo Patrono, per condividere tutti insieme la semplice mensa approntata per loro con immenso amore da gente del popolo.
Si tratta della rievocazione in ambiente moderno del modo di fare schietto di gente vissuta in un mondo che non esiste più; della esternazione di un sentimento religioso per onorare degnamente San Giuseppe, considerato uomo giusto e fedele a Dio, immagine della purezza e protettore dei poveri e, secondo la tradizione popolare, anche degli orfani e delle giovani nubili; di un antico rituale che nulla ha perduto del suo spirito originario, privo di spunti scenografici, che vuole essere come una volta l’esaltazione della carità, che è il “leitmotiv” della manifestazione, il motivo conduttore; che ricorda cose capaci di destare ancora ammirazione.
Si traduce nella preparazione di un cibo, originariamente composto da un misto di soli prodotti della terra e via via arricchito negli anni con altri ingredienti di basso costo, che, da più di un decennio a questa parte, il diciannove marzo viene consumato da tutti gli abitanti, dagli organizzatori, compresi i collaboratori, e dai forestieri presenti nel paese.
Quando le disuguaglianze, la povertà e ogni specie di malattia affliggevano la maggior parte della popolazione del Sud Italia, “lu cumbitu” aveva un solo scopo, quello della beneficenza, e gli organizzatori erano generalmente famiglie non abbienti, consapevoli che la sola spesa per l’acquisto dell’occorrente avrebbe comportato a loro privazioni e rinunce a causa del disagio economico in cui versavano.
Lo realizzavano, anche ricorrendo all’aiuto di altre persone del paese, sempre per assolvere il debito che avevano nei confronti di un voto fatto, “per sfamare i poveri”, rimanendo essi stessi per quel giorno digiuni e lo portavano a compimento in due momenti distinti: nel primo, con una breve cerimonia che aveva luogo, malgrado l’esigua disponibilità di spazio, nelle loro umili abitazioni e nel secondo, con la distribuzione dell’intero composto alimentare.
Era lì, in quelle case, dove aleggiava un’aura di sacralità e di serenità, che si poteva assistere a una scena capace di tenere legata l’attenzione delle persone e che si svolgeva in un silenzio assoluto rotto soltanto dal debole brusio delle preghiere recitate in gruppo dal sacerdote, dagli uomini e dalle donne genuflessi davanti a un tavolinetto modestamente imbandito, benedetto dal sacerdote, con sopra esposta l’icona della Sacra Famiglia.
Consisteva nell’atto inteso a richiamare alla memoria quell’uomo povero che nella Galilea, quando governava il crudele Erode, girava chiedendo una carità da tutti negata; era l’atto dell’offerta dell’elemosina, “di la vuccatejia”.
La tradizione voleva che fossero i componenti della famiglia che aveva fatto il voto a servire ciascuno dei tre seduti a quel tavolinetto chiamati a simboleggiare Gesù, Giuseppe e Maria, mentre le decine e decine di mendicanti soli e senza un tetto che affollavano le viuzze del paese, nonché i poveri che qui vivevano nella solitudine, erano in paziente attesa di ricevere anche loro l’agognata “vuccatejia”, la boccata di cibo.
Occorre far notare che nello svolgimento della “azione scenica” di cui sopra, significativo era il modo di comportarsi dei tre di fronte alla ciotola contenente il cibo somministrato: essi in quel momento dovevano semplicemente assaggiarlo poiché per poterlo consumare dovevano attendere che gli venisse portato a casa analogamente a come si faceva per gli altri poveri, con l’unica differenza che solo a loro si portava in più una bottiglia di vino, una piccola forma di pane fatto con farina di mais, “pizzatiejiu”, un tipo di pane lavorato a mano e cotto qualche giorno prima nel forno a legna della stessa casa, e un certo numero di ciambelle, “curujicchi”, anch’esse fatte con farina di mais e fritte nell’olio di oliva pure qualche giorno prima.
Nel periodo anteguerra e anche dopo per pochi anni ancora, le tre persone, per poter partecipare a “lu cumbitu”, dovevano avere particolari requisiti: appartenere a famiglie in condizioni economiche disagiate, essere moralmente integre e osservanti dei precetti della religione cattolica, essersi prima confessate e comunicate, per quanto riguarda il bambino, essere al decimo anno e la donna essere nubile e casta.
“Lu cumbitu” dei padri, diversamente da oggi, si concludeva con la distribuzione del preparato, de “la divuziuoni di San Giusieppi”, frutto di tante privazioni personali; a questo lavoro prendevano parte uomini, donne e ragazzi in quanto, come già detto, il diciannove marzo era il giorno dedicato all’aiuto ai bisognosi.
Per coloro che partecipavano, soffermarsi quell’istante necessario per porgere il misero pasto ed essere costretti a osservare anche di sfuggita i visi di molti mendicanti con evidenti i segni della malaria, della tisi e di altre infermità, era una visione straziante che rimaneva impressa nella mente e negli occhi.
Era questo “lu cumbitu” di ieri!
Oggi, che le circostanze sono cambiate in seguito alle mutate condizioni del tessuto sociale, a rendere di nuovo vivo e presente quel passato riconducibile al culto religioso degli antenati sono le donne, poiché la tradizione si mantiene molto sentita.
Per non lasciare che cada nell’oblio, esse, non più singolarmente, come avveniva fino a pochi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, ma in gruppo, lo organizzano e lo attuano seguendo lo stesso metodo e con lo stesso amore degli avi.
Preparano il cibo nell’abitazione di una di loro in quantità tale da poter bastare anche per chi passando si ferma per assistere al rito e sia pure con qualche “tocco di modernismo”, in un’atmosfera densa di raccoglimento e commozione, in tre momenti consecutivi lo portano a compimento.
Nel primo, quello introduttivo, che svolgono come vuole la tradizione alla presenza del parroco e di numerosi fedeli, i quali assistono e partecipano religiosamente, compiono l’atto devozionale fondamentale: fanno la carità con il cibo già benedetto ai poveri rappresentati dai tre della Sacra Famiglia.
Nel secondo, mancando per fortuna quelli di una volta, formano tante porzioni quanti sono i limpidesi presenti in paese, nessuno escluso perché “lu cumbitu” è un elemento di coesione della comunità e in questo giorno si mettono da parte dissidi e inimicizie, e le fanno portare direttamente nelle loro abitazioni; contemporaneamente fanno recapitare ai tre figuranti le pietanze in precedenza assaggiate accompagnando ognuna con una piccola forma di pane, “panettiejiu di San Giusieppi”, oggi fatto preparare dal panettiere con farina di grano duro, una bottiglia di vino e un certo numero di ciambelle, “curujicchi o zippuli”, fatte con pasta di farina di mais o grano e fritte nell’olio di oliva.
Nel terzo, quello conclusivo, esaurita la distribuzione agli abitanti, come già detto, tutta la rimanenza viene consumata dagli organizzatori, compresi i collaboratori, e i forestieri presenti, in una atmosfera di compostezza e sobrietà, in una tavolata allestita per accogliere persone di diversa estrazione sociale.
Questo è “lu cumbitu” concepito dai progenitori di Limpidi, un momento che nella sua semplicità, oltre ad essere un puro attestato di fede, vuole essere ancora un messaggio di fraternità; un’esortazione alle genti a non rimanere indifferenti di fronte a coloro che privi del minimo vitale levano alto il grido di dolore sperando di avere ascolto, a quella folla affamata di bambini gravemente denutriti la cui vita è in pericolo e ha un urgente bisogno di aiuto, alle donne sole e indifese, ai vecchi, ai disoccupati, agli emarginati; un incoraggiamento a stare vicini con spirito fraterno e solidale a quella moltitudine anonima di disperati, vittima di persecuzioni, che sognando la libertà e l’affrancamento dalla miseria estrema fugge da feroci dittature, da paesi in continua guerra intestina o in cui esiste già o incombe la minaccia della carestia, anche sfidando e affrontando gli eventi avversi della natura.
Limpidi, 22 Settembre 2021
C’è stato un tempo in cui in Acquaro è vissuto un uomo conosciuto col nome di ‘Ntuoni o ‘Ntonino.
Era un contadino, un onesto lavoratore della terra, che abitava nel quartiere oggi individuato come “donn’Antuoni”, con molta probabilità nella via oggi chiamata Via Antonino.
Oltre al modesto alloggio possedeva un piccolo fondo e un asinello con cui era costretto a “coabitare”: erano questi tutti i suoi averi.
Ntuoni o ‘Ntonino non aveva famiglia e solo, sistematicamente tutte le mattine, di buonora, usciva da casa.
Lo faceva portandosi sempre dietro il somarello del quale, in alcuni giorni, si serviva per effettuare il trasporto di cose per conto di terze persone, negli altri per farsi portare nella località in cui era situato il “bene” dove trascorreva le giornate lavorandolo accuratamente.
Dalla vendita dei suoi frutti, a volte magri, ricavava il denaro che, sommato a quello proveniente dal lavoro del quadrupede, gli consentiva di potere sbarcare il lunario.
Viveva nel suo mondo contento del suo stato il mite ‘Ntuoni o ‘Ntonino, senza altre aspirazioni se non quelle di lavorare e vivere in armonia con se stesso e con il prossimo.
Sennonché un brutto giorno, esattamente a causa del fondo, qualcuno volle turbare la sua tranquillità: come recita l’antico proverbio “stà buonu unu fina chi vole l’atru”.
Così formato, quel pezzo di terra, dal punto di vista planimetrico era “incuneato” in un vasto possedimento baronale con il quale confinava da tre lati mentre con il quarto confinava con una strada pubblica.
Sfortunatamente per ‘Ntuoni o ‘Ntonino, il possedimento, essendo morto il vecchio proprietario, era passato per successione al figlio, persona di caratura morale ben diversa da quella del padre, il quale, appena entrato in possesso, come inizio, dimostrò di non volere più continuare a mantenere con nessuno dei confinanti, in particolare con lui, gli stessi rapporti di buon vicinato di prima, dando inizio alle ostilità.
Infatti, dapprima, gli mandò a dire, tramite due servi, che “voleva” comprare quella che per lui era semplicemente una “striscia di terra” e che come controvalore era disposto a pagare una quantità di denaro molto remunerativa, successivamente, forse interpretando come una sfida il rifiuto di ‘Ntuoni o ‘Ntonino di prendere in considerazione la sua proposta di acquisto, determinato com’era ad averla vinta, passò alle maniere forti ordinando ai suoi servi di provocarlo con ogni forma di molestia per indurlo a recedere dal precedente proponimento.
Seguirono infatti, nel fondo di ‘Ntuoni o ‘Ntonino, una serie di danneggiamenti alle colture erbacee ed arboree, frequenti interruzioni del flusso nel canale dell’acqua d’irrigazione e persino in alcuni punti la rimozione e l’alterazione dei confini, con l’accusa di essere stato addirittura lui l’autore di queste ultime malefatte.
Per altri, tutto questo, sarebbe stato sufficiente per indurli ad accettare la proposta di vendita, non così per il mite, ma non pavido ‘Ntuoni o ‘Ntonino, il quale, “strinse i denti” e si predispose psicologicamente all'eventualità di affrontare il verificarsi di cose ben più spiacevoli.
Però non aveva previsto che potesse succedere un fatto che lo avrebbe messo con le spalle al muro: quel potente vista la tenacia con la quale egli si opponeva al suo volere aveva deciso di intentargli un procedimento giudiziario.
I suoi “uomini di legge”, avevano “fabbricato” l’accusa: ‘Ntuoni o ‘Ntonino era colpevole del reato di detenzione abusiva di gran parte del terreno di cui si era appropriato a poco a poco fraudolentemente durante gli anni e pertanto doveva sentirsi condannato alla sua restituzione.
Era un’accusa priva di fondamento, una calunnia che doveva essere confutata.
Si vide perso il povero ‘Ntuoni o ‘Ntonino, egli non era che un misero “zappatore” che viveva alla giornata e non aveva i denari necessari per pagare chi lo potesse difendere di fronte al giudice e dimostrare che il fondo, posseduto da tempo immemorabile dai suoi avi, non aveva subito nessuna modificazione nella superficie.
E poi quandanche fosse riuscito a trovare i denari per difendersi ci sarebbe stato qualcuno non asservito ai potenti propenso a dargli credito anziché avvalorare i motivi artatamente creati dall’altro convinto che qualsiasi giudice gli avrebbe dato ragione?
Era tormentato da questi dubbi, ma non avvilito ‘Ntuoni o ‘Ntonino, e tuttavia deciso a difendersi fino all'ultimo prima di cedere accettò di affrontare il giudizio.
Come prima cosa, caparbiamente, si adoperò per trovare un avvocato disposto a difenderlo e ci riuscì, perché uno giovane si dichiarò disposto a “perorare la causa” convinto della sua incolpevolezza e poi, per procurarsi il denaro occorrente per le spese legali, con la morte nel cuore, non avendo altre possibilità, decise di compiere un sacrificio estremo: vendere il suo paziente compagno, l’asinello.
E, come si verificò per il mugnaio Arnold di Sans-Souci del famoso racconto e della sua lotta per ottenere giustizia contro i soprusi di un nobile, anche per ‘Ntuoni o ‘Ntonino ci fu un giudice onesto il quale, fermamente convinto che l’accusa nasceva solamente da un capriccio, lo scagionò facendogli vincere la causa.
La vicenda destò scalpore, fece notizia, e ‘Ntuoni o ‘Ntonino diventò tanto popolare da arrivare a ricevere pubbliche manifestazioni di stima, di ossequio.
Davide aveva sconfitto Golia e dovunque si trovasse veniva trattato con deferenza, mai un uomo di sì umili condizioni era riuscito vincente in una contesa che in partenza lo vedeva soccombente: questo piccolo contadino era un gigante, stava scrivendo una superba pagina di storia.
Specialmente nel proprio paese, Acquaro, lo stupore per l’essere stato pronto a privarsi di un bene, per lui di vitale importanza, allo scopo di difendere la propria dignità di uomo libero e integro, fu tale da indurre la comunità del suo e anche di altri rioni a organizzare una raccolta della quantità di denari necessari per l’acquisto di un asinello che lo aiutasse a continuare a svolgere il lavoro di prima.
Ma non solo, perché il fatto di avere sconfitto la prepotenza, benché impossibile, con la sola arma della forza d'animo, gli valse il conferimento di un appellativo onorifico uguale a quello che veniva assegnato durante il regno delle due Sicilie ai personaggi che si erano distinti per particolari benemerenze.
Infatti rivolgendosi a lui tutti anteponevano l’appellativo onorifico di “Don”, quindi non più semplicemente ‘Ntuoni ma Donn’Antuoni.
Ubaldo Doré
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