A Limpidi (figura 1), dalle origini del paese e forse fino a metà anni ottocento, la lavorazione della terra è stata l’attività che la gente del luogo ha svolto in modo esclusivo.
La popolazione, composta in maggioranza da contadini - piccoli proprietari, traeva da vivere essenzialmente dai suoi frutti: gli ortaggi coltivati negli orticelli lambiti dal fiume, l’olio ricavato dalla molitura del modesto raccolto nei fonduscoli olivetati ed il vino prodotto da esigue estensioni di vigneto.
I raccolti, veramente ingrati, non ripagavano le tante privazioni e il sudore versato e, purtroppo, non sempre garantivano il minimo indispensabile per il nutrimento delle famiglie.
Non mancavano certamente i casi di povertà assoluta.
All’epoca, il latifondo, costituito dalle aree boschive delle montagne circostanti, dalle grandi estensioni di uliveti, dai terreni destinati alla semina o ad altre colture, situati nelle vallate lontane dal paese, lo detenevano i proprietari terrieri: i “signorotti” rappresentati quasi sempre dagli eredi del marchese di Arena o di altri feudatari.
I contadini non avevano scelta, dovevano obbligatoriamente accettare le indiscutibili condizioni poste da costoro per avere in affitto degli appezzamenti da seminare a grano, orzo, segale, mais, canapa e lino etc. e anche per essere autorizzati a raccogliere la legna da ardere, previo pagamento di un balzello.
Se si esclude il suo territorio montano, comprendente le poche case sparse nelle contrade Camera, Camerino, Fellari etc., a Limpidi non esisteva la pastorizia, ma si allevavano semplicemente qualche capretta o pecorella che, insieme agli altri animali da cortile come il pollame, fornivano il latte e le uova; in alcune occasioni si macellavano e si mangiavano conigli e porcellini d’india, “scorcigghji”.
Il maiale, lasciato crescere in parte allo stato brado e in parte in porcile “zimbiejiu”, ricavato spesso, per la esigua disponibilità di spazio, nell’unico vano sottostante alla stessa abitazione, in molte famiglie era d’obbligo.
La sua uccisione, a carnevale, garantiva un indispensabile rifornimento annuale di alimenti: carne salata, da conservare e mangiare, con parsimonia, durante l’inverno; insaccati; strutto come condimento e altro ancora perché, come è risaputo, “del maiale non si butta via niente”.
L’asino e il mulo, considerati “beni di lusso”, li possedevano soltanto i pochi “ciucciari-mulattieri-vaticali” che disponevano dei mezzi sufficienti per il loro mantenimento.
A queste persone tutti facevano ricorso quando si dovevano trasportare dei raccolti dai campi al paese oppure negli altri casi di effettiva necessità.
Un introito, anche se minimo, nella quasi totalità delle famiglie, proveniva dal baco da seta (figura 2), “siricu”, allevato, “nuotricatu”, nelle stesse abitazioni su ripiani di canne intrecciate “cannizzi”.
In Calabria, a quei tempi, questa “industria bacologica”, largamente diffusa, dava da vivere a diversa gente e la seta che si produceva, effettivamente di qualità eccelsa, “aveva invaso i mercati europei facendo scuola ad altre nazioni europee che si sentivano leader nel settore”.
Trovavano, di conseguenza, motivazione le ampie distese di terreni piantate a gelso dal momento che le sue foglie erano il nutrimento insostituibile dei “bruchi del bombice del gelso”.
Sono queste le poche notizie giunte ai nostri giorni, tramandate da padre in figlio, sulla situazione socio-economica degli abitanti di Limpidi, che di fatto rispecchiava quella di tutte le comunità del territorio all’origine soggette al sistema di dominio feudale.
I più anziani raccontarono che in quel contesto, nel quale non vi erano altre attività se non quella prettamente campestre, gli abitanti di Limpidi desideravano fortemente la presenza di qualcheduno disposto ad attendere a un qualsivoglia mestiere.
Fu forse questo il movente per cui un giorno arrivò in paese, proveniente dalle aree interne della provincia di Reggio Calabria, un certo Scandinaro, il quale aprì “bottega di sarto” in una fatiscente baracca, alla periferia dell’abitato, proprio laddove oggi sorge un fabbricato adibito a garage di proprietà De Lorenzo.
La “borsa”, che il sarto, “mastro custurieri”, si portava appresso, conteneva semplicemente due attrezzi del mestiere: un’affilatissima lama di ferro battuto che usava come forbici e un mastodontico ago, anch’esso di ferro battuto, il cosiddetto “saccaraso”, nella cui cruna non infilava filo di seta o di lana, bensì filo di fibre naturali ricavato dalla lavorazione manuale della pianta di ginestra o di lino o di canapa come già facevano, in antichità, i Greci e i Romani.
In Calabria o meglio nel Regno delle due Sicilie, in quei tempi di magra, questo tipo di attività era fiorente e non mancavano certo le materie prime.
La ginestra, pianta arbustiva sempreverde, profumata, spontanea e rigogliosa, che copriva sterminate estensioni di terreno (figura 3), si poteva procurare gratuitamente; diverso era per il lino e la canapa, che si producevano dopo la semina e colture particolari.
A Limpidi, oltre alla coltivazione della terra e all’allevamento del baco da seta, la maggior parte delle donne, da tempo, si dedicava alla elaborazione dei rami e degli steli delle suddette piante.
Esse, dal filamento della fibra, ottenuto manipolando centinaia di fascine di ginestra, creavano, attraverso l’intreccio eseguito con i telai esistenti in quei tempi, le “pezze di stoffa”, necessarie per la confezione degli “indumenti” o di altri “capi di biancheria”.
Molto più limitata, e pertanto meno lavorata, era invece la quantità di steli di lino da fibra e di canapa perché, per la loro produzione, non erano sufficienti le superfici di terreno che, detenute normalmente in fitto, si preferiva utilizzare, principalmente, per le semine di grano, mais, orzo, etc.
E’ noto che la fibra ricavata dalla lavorazione manuale di queste piante (figura 4), poi raffinata attraverso un processo di cardatura, pulitura etc., ridà un filamento che, a secondo della sua provenienza, si presta alla composizione di tessuti più o meno pregiati o anche per altre applicazioni.
Testimonianze storiche di un passato più o meno lontano, tramandatesi nel tempo, in particolare sull’uso della pianta di ginestra, ci confermano che la sua trasformazione fu una delle principali attività manifatturiere svolte nelle comunità del Regno dei Borbone di Napoli.
“La ginestra dà una fibra lunga, abbondante, uniforme e tenace da paragonare a quella della canapa e da superare di gran lunga quella del lino, mentre di questo è assai più morbida ed elastica e molti tessuti grossolani venivano ricavati soprattutto sia in Basilicata come in Calabria”.
Sarà stato questo il motivo per cui diventò pressante da parte delle industrie tessili dell’epoca la richiesta di fibra, rivolta in particolar modo alle piccole comunità agricole che, come quella di Limpidi, intravidero subito, nella nuova offerta di lavoro, una buona fonte di reddito se rapportata a quella che fino a quel momento aveva concesso solo di poter condurre una vita grama, piena di stenti e privazioni.
Nella comunità “l’odore dei soldi” fece scattare la molla.
Si costituirono squadre, prevalentemente di donne, con il compito di recarsi, di buon’ora, munite di falci, nei posti dove la materia prima da lavorare abbondava per raccoglierne quante più fascine era possibile, da trasportare poi sulla testa in paese, dopo avere selezionato i rami più lunghi e più grossi.
Limpidi, paese agricolo, aveva acquistato nel giro di pochi mesi una certa rilevanza; nelle sue viuzze c’era un tale fermento che gli conferiva la caratteristica di un vero e proprio “laboratorio al servizio dell’industria tessile”.
Dopo poco tempo però la richiesta, fino a quel momento limitata alla sola fibra di ginestra, venne estesa anche a quella di lino e canapa.
Soddisfare la nuova “domanda” non fu cosa facile, ma, poiché il pregiato filamento veniva pagato lautamente, i limpidesi si impegnarono a trovare il modo come poter rifornire le “industrie committenti”, che mandavano continuamente i carrettieri con i loro carri trainati dai muli, “trojini”, o anche solo i mulattieri con gli animali da soma, di quanta più “merce” era possibile.
Ben presto si resero conto però che c’erano dei problemi da risolvere; il più importante era quello rappresentato dalla quantità di fascine di steli di lino da avere a disposizione per la lavorazione.
Come già detto, la superficie del terreno, in affitto, dedicata alla coltivazione del lino e della canapa, limitatamente al solo fabbisogno familiare, non garantiva un raccolto tale da soddisfare la fornitura della quantità desiderata e, poiché occorreva ampliarla di almeno il triplo, con la consueta determinazione e con grande impegno riuscirono a ovviare l’intoppo in vista dell’annata seguente.
Presero, altresì, coscienza che con le tradizionali “tecniche” di lavorazione, non si poteva produrre, in tempi ragionevolmente brevi, tanta fibra quanta ne veniva richiesta.
Si dovevano sottoporre ad uno sforzo davvero massacrante.
Nei mesi di luglio e agosto il lino doveva essere estirpato e poi lasciato a essiccare nei campi.
Quando gli steli apparivano perfettamente asciutti, erano riuniti in fascine, trasportati al fiume e lasciati in sommersione nei laghetti, “gurnali”, creati appositamente, per un periodo variabile da sette a dieci giorni, durante il quale subivano un processo di macerazione che li ammorbidiva talmente da rendere più agevole la lavorazione.
La fase successiva, consistente nella separazione, attraverso la battitura, delle fibre dalla parte legnosa, era quella più impegnativa ed estenuante.
Ci volevano muscoli e tenacia per pestare in continuazione sui piccoli fasci di steli con una specie di pala di legno fino ad ottenere un buon prodotto, anche se ancora grezzo; un lavoro che durava dieci ore quotidiane e veniva ripreso il giorno successivo perché le richieste aumentavano sempre più.
Le povere eroiche donne, vere protagoniste, a volte purtroppo vittime inconsapevoli, silenziose nei momenti cruciali e nei periodi più ardui della vita di una famiglia, che negli attimi d’intervallo si dovevano sobbarcare anche i lavori domestici oltre a quelli dei campi, a fine giornata erano esauste.
Le altre fasi di lavorazione, fino ad arrivare al filato (figura 5), venivano poi effettuate altrove.
A Limpidi, l’attività iniziata come occasionale si rivelò tanto redditizia da diventare quella principale.
Durante il suo svolgimento si avvertiva la necessità di ideare qualche sistema che, contribuendo ad alleviare l’enorme fatica umana, concorresse principalmente ad accelerare il procedimento di estrazione della fibra dallo stelo della pianta di lino.
Vennero in aiuto i fratelli Pasquale e Giuseppe Muratore, soprannominati “vitruali”: due contadini - boscaioli - carbonai capaci di “plasmare” il legno come il vasaio fa con l’argilla, che dal legno ricavavano “mortai”, “mestoli”, “forchette”, “madie per il pane” e ogni altro utensile.
Questi, basandosi sulle frammentarie informazioni che avevano raccolte in giro, principalmente dai carrettieri, riuscirono, in poco tempo, a modificare quel “marchingegno” chiamato “mangano”, che, in forma molto ridotta, come in altre comunità, veniva da tempo utilizzato nella lavorazione.
Si trattò di una modifica sostanziale tanto che, dopo averlo sperimentato e messo in opera diverse volte, lo impiegarono definitivamente “nell’industria” per la separazione della fibra dallo stelo della pianta del lino.
Questo pesante utensile (figura 6), ricavato esclusivamente da un tronco di leccio, sagomato come un parallelepipedo con la base di 25 x 25 cm2 circa e la lunghezza di 1 metro e forse più, rappresentava l’elemento principale.
La parte interna era costituita da “due canalette”, ciascuna con sezione trasversale a forma di V, uguali e parallele: due triangoli isoscele rovesci di 7 cm circa di base e 15 cm circa di altezza.
Il precedente “mangano”, più piccolo di dimensioni, aveva invece una sola “canaletta” dalla sezione trasversale concava.
Un robusto tronco di legno essiccato, anche questo di leccio, dalla lunghezza di 1 metro e oltre rappresentava il secondo componente.
La parte centrale, che fungeva da “mazza dentata”, era modellata in modo tale che sovrapponendola alle “due canalette” dell’“elemento principale” combaciasse così perfettamente da sembrare un unico pezzo.
Un estremo era incardinato, con un perno di legno, all’estremità dell’elemento principale, rispetto a cui poteva ruotare di centottanta gradi, mentre l’altro era sagomato a mo’ di “manico” per consentire all’“operatore” di impugnarlo e pestare, con movimenti ritmici, i fasci di lino, in precedenza messi a macerare e, poi, fatti essiccare.
Le cronache riferirono che le modifiche apportate dai due “esperti fratelli” furono davvero geniali. La loro idea consentì di sistemare nelle “canalette” due fasci di steli contemporaneamente, in senso longitudinale, per separare, tramite battitura con la “mazza dentata”, la parte legnosa dalla fibra, successivamente lavorata con il vecchio “strumento”.
Il processo di lavorazione, prima estenuante, diventò molto più agevole e sbrigativo e permise, alla comunità di Limpidi, di poter produrre una maggiore quantità di fibra, oltre che di qualità migliore, tanto che gli stessi “committenti”, soddisfatti, decisero di far pervenire, tramite i loro “vettori”, altra materia prima da lavorare.
La novità suscitò molto scalpore e ai “fratelli artisti”, grazie alla pubblicità fatta dai carrettieri, pervennero richieste di costruzione di altri prototipi, che realizzarono assieme ai due loro cugini Giuseppe e Pasquale Muratore, detti “fachi”.
A Limpidi si iniziò così un’altra attività artigianale: la costruzione in serie di “mangani”, che durò per diverso tempo.
Gli altri mestieri che si praticavano erano quelli degli artigiani del legno, che facevano le botti, i barili, i tini, i “ruvaci” e altri contenitori in uso a quell’epoca. Famosi erano i maestri bottai per la loro precisione.
Ma il mestiere esercitato a Limpidi, che la storia ci ha riportato, è questo: “manganari”, costruttori di “mangani”.
I carrettieri (figura 7), fino a quando sono esistiti, che si spostavano con i loro carri, “trojini”, trainati da muli o cavalli da un paese all’altro per trasportare o vendere merce, cantilenavano come una nenia stando “a bordo della loro vettura” in movimento: “Arena, Arena, Arena chi di Francica si tena …”, “Dasà, Dasà, Dasà …”, “Acquaru, lu paisi di …” e, passando per Limpidi, “Limpidi, lu paisi di li briganti e di li manganari”.
E, andando oltre, dopo Dinami fino al primo paese in provincia di Reggio Calabria, S. Pietro di Caridà, forse incaricati di fare della pubblicità, terminavano con: “A Caridà lu vinu buonu don Dominicu Meriglianu”.
Limpidi, lì 4 agosto 2014
Ubaldo Doré
Ricordo che, alla mia epoca (anni '60), per ben più di tre mesi, ogni anno durante l'inverno, quasi tutta la comunità del nostro paese era continuamente impegnata con la raccolta delle ulive.
La maggior parte del paese era circondato di uliveti. C'erano delle zone dove i rami delle piante di ulivi secolari si estendevano sopra la strada. Molte volte, durante la notte, soffiava il vento che causava una grande cascata di ulive. I nostri genitori si preparavano di buon'ora e, provvisti di lanterne e scope, con il buio andavano, portando anche i figli, presso il proprio uliveto per allontanare le ulive dal centro della strada e raccoglierle sull'orlo. Questo si faceva perché la gente che si trovasse a passare per la strada, recandosi in campagna, non le schiacciasse. Più tardi, quando diventava giorno, le ulive ai bordi della strada venivano raccolte e messe nei panieri.
A quei tempi non c'erano le comodità ed i mezzi di adesso. Le ulive si raccoglievano a mano, con le dita, una per una. Si riempiva il paniere ed il contenuto si versava in una cesta (copparèja). Le povere donne poi, poggiandole sulla testa, portavano le ceste piene all'oleificio e accumulavano le ulive in un angolo (u zzimbùni), dove vi rimanevano fino a che non veniva il proprio turno per macinarle e fare l'olio. Spesso le donne dovevano fare più di un viaggio al giorno; specialmente per loro erano tempi assai difficili. La donna di allora aveva tante altre faccende: doveva cucinare per la famiglia, andare al fiume per lavare i panni, badare ai figli, specialmente se erano ancora piccoli e preparare la legna per quando doveva fare il pane in casa. La donna di allora non credo trovasse un minuto di svago. Con tutto ciò, quella donna così tenace non si lamentava.
Per macinare le ulive e produrre l'olio, a quei tempi c'erano undici oleifici ad Acquaro. In Via IV Novembre ce ne stavano due, quello dei Comito (1) e, cento metri dopo sulla sinistra andando verso Salandria, quello di Domenicantonio Colaci (2). A circa cento metri dalla chiesa matrice, andando verso località Manetta, c'era quello di Nicola Crupi (3). In Via Oleifici ce ne stavano tre. Il primo si incontrava scendendo dalla strada Provinciale e, da come ricordo io, non era funzionante (4). Circa duecento metri più avanti c'era quello del dottore Calcaterra (5) ed ancora più avanti, andando verso Semiatori, prima di arrivare ad Annasi ce ne stava un altro che era gestito da più soci (6). Dall'altro lato del fiume, dopo il ponte, nel posto chiamato Serra c'era l'oleificio che era una volta dell'avvocato Calcaterra (7). Ritornando verso il paese, in Via Ortenzia, a Poteja c'era quello di Cesarelli (8). Ed ancora, prima de u Cannale c'era l'oleificio della famiglia Galati (9). A Santu Nicola, contrada vicino Limpidi, c'era l'oleificio di proprietà di Don Pietro David (10) e, non tanto lontano, tornando verso Acquaro c'era quello di Domenico Crupi che, per merito della famiglia Galati, fu anche sindaco (11). Tranne tre di questi oleifici, gli altri erano pienamente funzionanti.
Ricordo anche quando mia madre faceva il pane in casa. Dopo che il forno si era riscaldato, infornava per prima "a pitta", una specie di focaccia. Capitava a volte che il pane venisse fatto quando si macinavano le ulive e mia madre mandava me o una delle mie sorelle a portare due o più pitte al frantoio. Arrivando là, che non era tanto lontano, le pitte erano ancora calde. Queste si innaffiavano con quell'olio fresco, di colore verde, versato direttamente dal tino e vi si metteva sopra un po' di peperone piccante macinato. Era davvero un mangiare squisito.
Tempi duri, tempi di vita semplice, tempi abbastanza primitivi, ma tempi che ci hanno insegnato a vivere.
Ho pochissimi ricordi materiali di mia nonna materna. Diciamo che ne ho più orali, perché ho passato molto tempo con lei e da lei ho assorbito come una spugna tutto ciò che mi raccontava del suo passato, della sua vita non facile. Immagazzinavo tutto nell'archivio della mente e non pensavo un tempo che sarei andata a rovistare in quell'archivio polveroso per trascrivere i miei ricordi... Erano tempi duri quelli e le donne lavoravano incessantemente sia dentro che fuori. Negli uliveti, nelle vigne, negli orti, in casa... C'era sempre da fare e quando non c'era lo si trovava il bel daffare... Cercando delle cose, l'altro giorno, ho ritrovato due gomitoli di ginestra. Non saprei dire quanti anni abbiano, ma sicuramente tanti... sicuramente più di sessanta. In origine, mi ricordo che erano due matasse, ma per evitare che s'aggrovigliassero, tanti anni fa decisi di farne dei gomitoli con il desiderio di rilavorarli come faceva mia madre una trentina di anni fa, creando dei tappeti ai ferri. E' un filato grossolano che assomiglia allo spago, ma non è resistente e non so se sia per l'età, o una sua caratteristica, ma si spezza facilmente. Mia madre, infatti, per creare dei tappeti resistenti, univa il filato a collant rotti o a striscioline di stoffa. Creava con pazienza, tagliando e cucendo, strisce da qualche vestito vecchio e poi ci univa la ginestra. Ne veniva fuori un manufatto pesantissimo e indistruttibile che durava per molti anni. In Calabria, tanti anni fa, era molto in uso la lavorazione della ginestra. La si faceva in quasi tutti i paesi, vista la necessità di creare un filato economico, e la grande abbondanza di ginestra che colorava e profumava le nostre colline. E' proprio questo il periodo di maggior fioritura e se ci penso mi pare ancora di sentire il profumo che aleggiava sulla "mia" Malamotta... Qui in Sicilia c'è abbondanza di ginestra con le spine... La nostra mi piaceva di più e mi sembrava pure più profumata. Ricordo che ne raccoglievamo i fiorellini per il Corpus Domini. Le strade dove passava la processione col Santissimo erano segnati da un viottolo fiorito di giallo... cari ricordi. Ritornando alla lavorazione della ginestra, devo dire che ho trovato molte notizie e video bellissimi, in rete, ma lo stesso voglio cercare di descrivere le cose, che mi ricordo raccontava mia nonna. Era per lo più un lavoro prettamente femminile e di solito si faceva in compagnia di sorelle, madri e figlie o amiche strette. Si andava di buon mattino, prima della calura estiva a raccogliere la ginestra che fioriva per lo più sulla collina di Malamotta per la sua posizione assolata. Si raccoglieva dopo sfiorita e giunti a casa si legava con i rametti stessi, essendo flessibili, ma robusti, in piccoli mazzetti che venivano poi fatti bollire in una grossa caldaia ("coddàra") dove era stata messa della cenere. La cenere in quegli anni veniva usata per tutto perchè creduta disinfettante e sbiancante. L'odore che si sprigionava non era proprio invitante, anzi era proprio nauseabondo, ma si sa, al tempo si faceva tutto in strada e nessuno ci faceva caso, visto che erano usanze. Bollita, veniva portata al fiume, e sciacquata dalla cenere veniva lasciata ammollo per almeno otto giorni, circondata da pietre perchè la corrente non la portasse via. Naturalmente si cercavano dei posti vicino ai propri terreni perchè non la rubassero. Purtroppo c'era pure quest'evenienza. Trovare tanti bei mazzetti di ginestra già raccolta e cotta, faceva gola a molti che così avevano già metà lavoro svolto. Ognuno aveva quindi il proprio posticino segreto, una "gurna" (pozza d'acqua) ben accessibile dove si poteva controllare anche tutti i giorni. Passati gli otto giorni la ginestra era ormai morbida e malleabile e soprattutto era sbiancata tantissimo, ma siccome risultava vischiosa, doveva essere passata nella sabbia del fiume ed ancora sciacquata, dopodichè si provvedeva a sfibrarla. La sfibratura avveniva sui grossi massi della fiumara. Si prendevano i mazzetti e si colpivano con un grosso bastone chiamato "mànganu". Letteralmente la pianta veniva bastonata e probabilmente da qui nasce pure il detto "ti manganiju" per dire "ti do botte". Con quest'operazione, la fibra veniva separata dalla corteccia che si buttava o si usava per accendere il fuoco, una volta asciutta. La fibra in sè appariva come un groviglio stopposo senza forma e pieno di resti grossolani. Doveva quindi essere cardata come si faceva con la lana. Finito il lavoro al fiume, questo era quasi un passatempo dei lunghi ed afosi pomeriggi estivi. Si poteva fare a tempo perso chiacchierando con le vicine. L'attrezzo usato per cardare erano di solito due tavolette con su piantati diversi chiodi. Finita di cardare, come la lana, doveva essere filata per ottenere il filo da lavorare e quindi veniva adoperato il fuso. Mi ricordo che vicino a mia nonna abitava un'anziana signora che filava ancora. Tutti i pomeriggi d'estate, quando passavo davanti casa sua la vedevo col suo fuso lucido in mano. I movimenti erano veloci e precisi e dal grosso batuffolo si districava pian, piano il sottile filo. Era lana, ma sempre affascinante da vedere. Fosse stato oggi, mi sarei fermata ad osservare meglio, a chiedere, magari a provare quella magia aguzzata dall'ingegno dei nostri avi che da tutto hanno saputo trarre profitto. Le belle matasse ormai pronte, di solito venivano lasciate al naturale, ma so che in molti paesi della Calabria, venivano anche colorate con l'estratto degli stessi fiori della ginestra che conferivano un bel giallo solare o coi gambi che davano un bel marrone scuro. L'ultimo stadio era la lavorazione al telaio per farne lenzuola, strofinacci, tovaglie da tavola, sacchi per mettere il pane e la farina, o ai ferri per creare soprattutto calze per l'inverno. Ne ricordo ancora un paio di mio nonno che si ostinava a volerle usare ed io non capivo il perchè. Era un filato ruvido e pungente per le tracce di fibra che sembravano piccoli aghi, ma erano anche un bene prezioso da sfruttare nei lunghi e rigidi inverni. Cose antiche, ormai remote che ci riportano indietro nel tempo, eppure, in una società che cerca sempre nuove vie di sviluppo e novità, c'è ancora tempo per il passato e posto per la bella e profumata pianta della ginestra. Magari una nuova potenzialità di sviluppo per la nostra bella e martoriata terra che continua sempre a stupirci coi suoi doni naturali e meravigliosi:
http://www.spazioforum.net/forum/topic/29981-calabria-ginestra-entra-nelle-imprese/
http://www.elicriso.it/it/pubblicare_articoli/tessuti_alternativi/
Chiapparo Anna Maria 2012 (Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione anche parziale senza citare la fonte o l'autrice del testo)
Ancora oggi è molto diffusa in Calabria l'usanza di fare il pane in casa ed anche i fornai tradizionali con forni a legna, sfornano il cosiddetto "pane i casa" che si sa, col fuoco di legna, ha tutt'altro sapore. Nei paesi piccoli come il mio, chi non aveva il forno poteva contare sulla generosità dei vicini che ce l'avevano in qualche angolo d'orto, in garage, in cortile ecc. e lo prestavano volentieri a parenti ed amici che ricambiavano il favore regalando una bella pagnotta calda e l'eventuale aiuto per qualche servigio. Quando in passato non esisteva ancora il lievito di birra classico, per lievitare si usava il lievito madre ("lavàtu) che le nonne facevano impastando un pò di farina, acqua e sale e lasciavano ad inacidire. Questo impasto, era sempre tenuto da conto e formava una crosticina che nascondeva la pasta morbida. Quando serviva a qualche vicina, se ne prendeva una piccola porzione e la si regalava ("lavatìajiu") oppure si dava tutto e poi veniva restituito il pari impasto fresco, da conservare nuovamente, rinnovandolo. Per il pane si usa farina di grano duro o di mais anche miste. Da noi la farina bella bianca, quasi impalbabile come borotalco, la chiamiamo "farina hjuruta" e non ha nemmeno un granello di crusca ("canìjjia"). Quella di mais ("mìjjiu") serve a fare un pane più saporito, più consistente e soprattutto per i tradizionali panini di San Giuseppe ("pizzatèjia") Il giorno deciso per fare il pane, tutto doveva essere pronto: frasche in abbondanza "per fare" il forno, tovaglie o lenzuole pulite, madia ("majijia"), acqua calda ecc. Il pane s'impastava nella "majijia" aggiungendo alla farina setacciata col setaccio ("crivu") il lievito sciolto in acqua tiepida, piano piano, fino a creare un impasto appiccicoso. Si scioglieva pure il sale con l'acqua tiepida e s'aggiungeva continuando ad impastare. Di solito la quantità di farina era tanta perchè si usava fare pane in abbondanza e quindi, anche per impastare, c'era spesso bisogno di aiuto. Quando anche noi lo facevamo, aiutavamo mia mamma a girare la pasta sbattendola e dando pugni con forza per far amlgamare bene il lievito e far in modo che l'aria penetrasse in fondo, a renderla più leggera. Quando tutto era ben amalgamato e di consistenza omogenea, la pasta era pronta da tagliare in forme. Mi madre tagliava a tocchetti e sul piano infarinato in abbondanza della madia, velocemente creava ciambelle e pagnotte che venivano allineate su un ripiano ben distanziate. A questo punto copriva tutto per bene con un lenzuolo tenuto apposta o una tovaglia e se era inverno mettevamo sopra più coperte a riscaldare e far lievitare tutto velocemente. Dopo un'oretta, mia madre incideva il pane col coltello e soppesandolo capiva se era lievitato o meno decidendo se lasciarlo ancora un po'. Nel frattempo si era già provveduto a preparare il forno, di solito con frasche di ulivo che da noi sono molto facili da trovare. Il forno riscaldava subito l'ambiente e se era inverno, a quell'ora di primo mattino, faceva molto piacere starci intorno a godere del calduccio che emanava. Se era estate non era affatto piacevole fare il pane e noi bambine facevamo di tutto per starne alla larga. Quando il pane era ben lievitato, ed il forno pronto (lo si capiva dai mattoni della cupola imbiancata dal calore), mia mamma tirava in avanti la brace e la copriva con una vecchia tegola ("ceramìda") per non scottarsi e poi puliva ben, bene tutto il forno dalla cenere rimasta, con un attrezzo inventato che consisteva in un lungo manico con all'estremità dei cenci ben attaccati con fil di ferro ("càjipu"). Oggi ci sono in commerce apposite scope ricavate dalla palma nana soprattutto in Sicilia. Questo veniva bagnato in un secchio tenuto vicino e con movimenti veloci in un attimo il piano del forno (visula) era ben pulito. Dopo questo, s'infarinava per bene una pala di legno col manico lungo e sopra venivano adagiate le pagnotte ("panìatti") e le ciambelle ("curuji") ad una ad una ed infilate nel forno dalla maestria della mamma che sapeva come metterle e farcele entrare tutte. Quando il forno era quasi pieno, davanti metteva delle pagnotte stese e allargate con le mani perchè non gonfiassero tanto e cuocessero subito (pitte). Da questo è nato il detto "Pari na pitta avanti furnu" (Sembri una "pitta" davanti al forno) per indicare una persona che sta sempre davanti a tutti quando c'è da vedere qualcosa e naturalmente, inteso ironicamente, intralcia gli altri. Quando tutto il pane era infornato, chiudeva la bocca del forno con la sua chiusura di ferro per trattenere ed espandere il calore, che chiamiamo "timpagnu". Il pane cuoceva per una buona ora sorvegliato a vista in continuazione, dalla mamma perchè non bruciasse, ma non nella prima mezz'ora per non interrompere la lievitazione e farlo sgonfiare. Le prime a cuocersi, erano naturalmente le pitte che venivano di solito tagliate con l'aiuto di uno spago, in due parti e rimesse alla fine dentro per diventare pane biscottato come le più piccole freselle in commercio. Qualcuna veniva anche lasciata da mangiare imbottita con le prelibatezze che si avevano in casa o con semplice olio e origano. Inutile dire che ormai il buon profumo di pane caldo aveva già pervaso tutta l'aria del vicinato... Una volta cotto veniva tolto dal forno e scelto. Scelto, nel senso che, qualcuno si lasciava per i giorni a venire, visto che si manteneva morbido a lungo, qualcun altro doveva essere regalato a parenti ed amici e un altro più ben fatto e cotto, naturalmente doveva essere regalato alla padrona del forno insieme ad una "pitta". Il resto veniva tagliato a "frese", le pitte di cui sopra con lo spago, altri a fette che sarebbero rifiniti ancora in forno a diventare pane duro biscottato. Per diventare duro veniva rimesso in forno per qualche giorno e qualche notte. In tempi in cui non esistevano i congelatori e non tutti avevano il forno in casa per poterlo fare spesso, questo era un ottimo metodo per conservare a lungo "il pane di casa" che veniva poi custodito in sacchi di tela ("cirmi") ben legati e riposti al sicuro nelle cassepanche ("casce") o in dispense. Al bisogno veniva bagnato in acqua o brodo e consumato per zuppe, ma anche rosicchiato al naturale.
Chiapparo Anna Maria 2012
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