L'esperienza dell'emigrazione ha una rilevanza non solo sociale ma anche emotiva. L'emigrazione, affermava WINNICOTT, famoso psicoanalista britannico, è l'interruzione della continuità dell'esistenza. Emigrare significa perdere essenzialmente luoghi, odori, suoni, contatti originari che costituiscono un involucro acquisito dalla nascita. Significa perdere appunto i codici originari di vita e comunicazione. Gli atteggiamenti con cui l'emigrato affronta l'allontanamento sono la nostalgia e l'idealizzazione del suo vecchio mondo.

L'immigrato in terra straniera diventa anche straniero a se stesso in quanto solitudine, isolamento ed estraneità si possono trasformare in momenti di vera e propria crisi di identità. Il paese dove approda non è la sua patria e quello che lascia cessa di esserlo, fuorché nel ricordo. La sua visione si sdoppia. È combattuto tra la vita di prima e quella di dopo, tra la rottura e la nostalgia.

Egli sperimenta un'angoscia, l'angoscia di chi emigrando, si sradica dal proprio contesto di vita e si ritrova in assenza di tradizionali punti di riferimento culturali e sociali, quindi simbolici ed affettivi, circostanza che mette in crisi la propria stessa identità.