“P'olivi” di Giovanni Luzzi
P'olivi
Stanotte minau lu viantu e scuoatulau l'olivi,
‘ndinocchjuna, diaci coppariaji ‘nda cogghjivi.
‘A sira mi ricuagghju sgujata e tutta spatta,
avant’‘a porta, sula sula, m’aspett’‘a gatta.
‘U masculiaju mio ciange e guarda 'a minna,
quattru cucchjarati di panata e pue ‘a ninna.
J’a funtana ‘i Donn’Antuani l’acqua pigghju
e cuamu lu chjuavu io sempe m’assuttigghju.
‘U pane è truappu duru e no' s'ammogghja
e mancu ‘a pignata vole cchjù ‘mu gugghja.
Figghju mio, assai curta ti catte la cammisa
ma ‘u suduri mio ti tene ‘a speranza ‘mpisa.
Mo cantu ‘na canzuneja beja e spenzierata,
‘mu mi scuardu d’ogni cosa pe' tutt’‘a sirata.
‘Nto liattu mi giru e mi rigiru tutta quanta cunzumata
e pianzu a tia, maritu mio luntanu, pe' tutt’‘a nottata!
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E NTA VERNATA
RANU NTO CASCIUNI
E UAGGHIU NTO LANDUNI
“a sira, duapu a dimaria, aspettavamu a chija rota di vrasiari,
o scuru, cuamu dui animi i prigatuariu u torna a mamma nostra”
Caro Gianni,
gran dote la tua di smuovere le più sensibili corde del cuore quando tocchi argomenti simili. Temi senz’altro a noi tutti molto cari per essere cresciuti anche e soprattutto respirando “vento”. Era quello il tempo in cui si possedeva poco e quel poco ci appare oggi come la più preziosa delle eredità di cui farcene vanto e privilegio. Di ogni agente atmosferico la vita dei nostri avi ne era permeata al punto da averne il massimo timore o talvolta toni addirittura confidenziali. Si lodava la pioggia nella stagione estiva quando il terreno era arso e spaccato dalla calura, ma le si imprecava anche contro, come fosse un cattivo vicino, per l’interruzione forzata delle lavorazioni al perdurare di questa. Il tuo canto, caro Gianni, restituisce con fedele ricostruzione tutti questi sentimenti spingendosi nell’autentico, nel vero, in un lucido realismo dalla prima all’ultima parola. Le famiglie erano state tutte amputate dal flagello migratorio, a casa erano rimasti gli anziani e le giovani madri ad accudire le tante bocche da sfamare. Gli appezzamenti di terreno da queste coltivate con l’antico, arcaico sistema dell’agricoltur a “a zappa” che tanto toglieva e ben poco restituiva, nonostante le atroci fatiche. Spesso nemmeno quel poco necessario allo sbarco del lunario. I figlioletti ancora infanti lasciati a balia dalla vicina mentre gli scolaretti nei pomeriggi venivano iniziati ai duri lavori nei campi secondo la capacità di ciascuno. Le stagioni erano ancora ogni una al loro posto. Fioriture a primavera, varie lavorazioni (potature, rincalzi, pulitura, pacciamatura ecc ecc) nella mezza stagione, raccolti sul finire dell’estate e d’inverno. All’approssimar si dell’autunno, quando il vento caldo del deserto cedeva il posto al “limbici” (libeccio) questo si portava dietro da sud-ovest le sue prime, umide piogge e i primi pungenti freddi. “Stanotte Minau lu viantu …” e quel “Minau” smette di essere impersonale e conferisce forza e personalità, quasi autonomia decisoria all’azione di questo. Lo spirare del vento significava svegliarsi molto presto al mattino, raggiungere il podere prima del passaggio sullo stradone dei contadini giornanti evitando così il calpestio delle olive cadute per raccoglierle cosi sulla strada e nei fossati.
In questa stagione iniziava, cosi, la dura fatica delle nostre raccoglitrici di olive. Pochi ed essenziali gli arnesi di lavoro, tutti di sapiente fattura contadina in un rispetto assoluto e armonioso con le risorse naturali: Un paniere intrecciato di canne con verghe di salice, una scopa ricavata dai rami rinsecchiti della brughiera e in origine i sacchi di canapa. Più tardi, nell’ottica del riuso, perché in quella realtà tutto veniva riutilizzato, fecero la comparsa i sacchi di plastica dura (cirmeja) originariamente contenenti il concime dei due tipi detti rispettivamente “a cinnari” e “a sale” sui quali spiccava in corsivo minuscolo la dicitura “montedison-mon tecatini” o “enichem”, beffarda testimonianza di un mondo industrializzat o ad un tempo limitrofo e lontanissimo. Vita di stenti la loro, spesso solo affittuarie degli appezzamenti d’olivo (in gergo “cinanare”) e in quanto tali lavoravano addirittura “a quinto” cioè quattro parti del raccolto al padrone mentre solo una restava a loro sotto forma di remunerazione. Raccoglievano olive a mano, con la schiena ricurva e quando non ce la facevano più inginocchiate sul terreno. Pagheranno più avanti, per questo, un prezzo salatissimo con dolori reumatici, artrosi, scoliosi e deformazioni della colonna vertebrale. Nemmeno le giornate più rigide concedevano soste, ma sovente, per non perdere tempo, si continuava a raccogliere scaldandosi le mani con un po’ di fuoco acceso nel canale di una tegola costantemente al loro seguito (vrasi nta na ciaramida). Si ricominciava dopo un frugale e rapido pasto: Pane, un po’ di piscialluagghiu (tonno fatto in casa), ‘na sarda o qualche pezzo di carne salata e gli immancabili peperoni fritti, cosi piccanti da essere usati penso più per scaldarsi ancor prima che per nutrirsi. Da novembre a marzo, dall’alba al tramonto, interrompevano solo al rintocco della campana del vespro (la dimaria), spesso mal vestite e per questo intirizzite dal freddo. Specie nelle annate di abbondanza, le olive, tra le ampie chiome degli altissimi olivi saraceni, erano buttate giù solo dal vento in un soave frusciare di foglie la cui “musica” riecheggia ancora viva nel mio ricordo e si rinnova nei tuoi versi. Solo dopo la dimaria si faceva ritorno a casa, ogni una col loro prezioso e pesante carico mirabilmente trasportato in perfetto equilibrio sulla testa dopo aver improvvisato una specie di corona attorcigliando uno strofinaccio (fadda). Era del resto impensabile, e sarebbe stato anche lecito dopo una giornata di duro lavoro, rientrare “a gamba leggia” (a gambe leggere, senza pesi). Per non perdere “la viaggiata” si diceva. Una volta a casa per le nostre infaticabili madri iniziavano le incombenze familiari: la frugale cena, la predisposizione del pasto per il giorno dopo, il controllo dell’operato dei figli, lavare, rassettare e, non ultimo, rassicurare gli animi. Figure esili, talvolta ombre di se stesse, le potevi incrociare avvolte nei loro scialli, nel buio al calar della sera, in un andirivieni dalle fontane pubbliche a prendere acqua piuttosto che a sciacquare qualche arnese. I ragazzi, in età scolare, lasciati a casa talvolta ad accudire i fratellini più piccoli, avevano precise consegne, prima fra tutte far trovare un fuoco acceso al rientro dei genitori. Erano pomeriggi fatti soprattutto di attesa quelli della nostra infanzia, aspettavamo la dimaria che rientrasse a casa quell’odore acre di vestiti bagnati di pioggia e di sudore e intorno alla ruota del braciere ci guardavamo l’un l’altro raccolti come anime del purgatorio, aspettando d’essere accarezzati da quelle amorevoli mani annerite dalle olive, doloranti e gonfie dal pietrisco che si conficcava tra le unghie o dalle spine di acacia che tormentavano i loro giorni e le loro notti. Ed era una gran festa le volte che, dal paniere, spuntava fuori un pettirosso raccolto infreddolito e portato a casa per noi bambini.
Intorno al fuoco, la sera, su quei visi scarni vi potevi leggere tutte le ansie e le preoccupazioni, figure rese caravaggesche per la sola, fioca luce del ceppo ardente. Ci si rifocillava dall’umidità assorbita nella giornata passata sotto una pioggerellina leggera e costante che oltre ai vestiti penetrava anche nell’anima. Ma l’anima di quelle giovani madri era scossa si dalle fatiche ma spesso ancor di più dal pianto inconsolabile dei bambini affamati ai quali le mammelle non davano più latte a sufficienza per placare i morsi della fame… “ahi dura terra, perché non t’apristi!!!” Ed è qui che l’amore si manifesta assoluto e stoico, di madre che al pianto del figlio per la “cammisa truappu curta” (lett. camicia troppo corta/amara sorte) elargisce comunque un rassicurante sorriso nel cullare il figlioletto. Amore incondizionato quello delle nostre madri-raccoglit rici che, nonostante il buio nel cuore si vestivano di rassicurante luce nei volti. Erano solite intonare, come tu fedelmente riporti, spensierate canzoni popolari, nei campi o a casa, quasi a volersi beffare della miseria più nera e per tenere “la speranza sempre mpisa” (sempre accesa). “Spatti e cunzumati” (stanchissime) andavano a letto e immancabilmente il pensiero volava oltreoceano ad alimentare quel trasporto amoroso di giovani spose ridondanti di sentimenti poco consumati e spesso soffocati. Di molte di loro non saprei ben dire se avessero davvero mai conosciuto l’amore, quello fisico, fatto di carezze e gesti affettuosi, o dal necessario sostegno derivante dalla presenza maschile, ragion per cui spesso erano costrette ad indossare i panni sia dell’uomo che della donna assolvendo ad entrambi i ruoli genitoriali. Ciò di cui sono però assolutamente certo è l’intensità del loro amore, incondizionato, oltre ogni genere di avversità. Quante volte ho osservato quelle nostre madri privarsi del poco di cui disponevano pur di strappare un sorriso ai propri figliuoli al punto che noi, oggi, brancoliamo tra un prepotente senso di colpa e uno struggente ricordo.
Mi fermo qui caro Gianni, perché quelle mani, i pettirossi e le spine di acacia fanno parte di un tempo che oramai non c’è più e a parlarne non resta che una gran commozione come una fucilata nel petto.
Con l’affettuosa stima di sempre,
Pasquale Rosano
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