Nell’entroterra calabrese esistono alcuni piccoli borghi disabitati, dove non è facile arrivarci, sia perché sorgono in luoghi impervi sia per le poche strade di accesso, solitamente difficili da percorrere. Ce ne sono anche altri ubicati in località facilmente raggiungibili in cui tuttora vive un numero molto ridotto di persone, in prevalenza anziane.
Dei primi, oramai senza più vita, solo le mura sgretolate possono essere i testimoni muti della loro storia, mentre di molti dei secondi si ha l’impressione che si ignori l’esistenza tant’è impressionante lo stato di abbandono in cui si trovano.
Per i primi, purtroppo, a causa dell’assoluta mancanza delle tracce di coloro che ci hanno vissuto, è ormai del tutto inutile qualsiasi ricerca volta a reperire elementi necessari per fare una ricostruzione delle vicende umane, piccole o grandi, che li hanno segnati.
Nei secondi, malgrado la situazione di noncuranza, c’è ancora chi non è disposto a rimettersi alla fatalità di vedere il luogo natio subire la stessa sorte e con esso assistere alla scomparsa del patrimonio avito, un patrimonio legato ai valori e alle tradizioni in cui è racchiusa tutta la saggezza delle vecchie comunità contadine locali.
È il caso di Limpidi, con un passato pieno di vita, dove oggi le poche persone che vi abitano lottano strenuamente affinché con il paese non muoia anche la memoria delle loro radici.
È qui, infatti, che un appuntamento festivo, una tradizione sentita in maniera forte e radicata, che trova il suo principio nell’antichità, rivive e torna puntualmente alla ribalta grazie alla pervicacia delle donne, coadiuvate finanziariamente dai pochi nuclei familiari scampati alla “falcidia” dello spopolamento.
Si tratta di una usanza “nobile”, inusuale rispetto alla cultura di vita d’un tempo, che nei secoli, ogni 19 marzo, ha visto i limpidesi tralasciare tutte le altre attività per porgere la mano ai poveri, ai senza voce, al cosiddetto sottoproletariato; di una consuetudine conosciuta nel dialetto locale come “lu cumbitu”, ossia l’invito: l’invito rivolto a costoro a convergere a Limpidi, nel giorno dedicato al loro Santo Patrono, per condividere tutti insieme la semplice mensa approntata per loro con immenso amore da gente del popolo.
Si tratta della rievocazione in ambiente moderno del modo di fare schietto di gente vissuta in un mondo che non esiste più; della esternazione di un sentimento religioso per onorare degnamente San Giuseppe, considerato uomo giusto e fedele a Dio, immagine della purezza e protettore dei poveri e, secondo la tradizione popolare, anche degli orfani e delle giovani nubili; di un antico rituale che nulla ha perduto del suo spirito originario, privo di spunti scenografici, che vuole essere come una volta l’esaltazione della carità, che è il “leitmotiv” della manifestazione, il motivo conduttore; che ricorda cose capaci di destare ancora ammirazione.
Si traduce nella preparazione di un cibo, originariamente composto da un misto di soli prodotti della terra e via via arricchito negli anni con altri ingredienti di basso costo, che, da più di un decennio a questa parte, il diciannove marzo viene consumato da tutti gli abitanti, dagli organizzatori, compresi i collaboratori, e dai forestieri presenti nel paese.
Quando le disuguaglianze, la povertà e ogni specie di malattia affliggevano la maggior parte della popolazione del Sud Italia, “lu cumbitu” aveva un solo scopo, quello della beneficenza, e gli organizzatori erano generalmente famiglie non abbienti, consapevoli che la sola spesa per l’acquisto dell’occorrente avrebbe comportato a loro privazioni e rinunce a causa del disagio economico in cui versavano.
Lo realizzavano, anche ricorrendo all’aiuto di altre persone del paese, sempre per assolvere il debito che avevano nei confronti di un voto fatto, “per sfamare i poveri”, rimanendo essi stessi per quel giorno digiuni e lo portavano a compimento in due momenti distinti: nel primo, con una breve cerimonia che aveva luogo, malgrado l’esigua disponibilità di spazio, nelle loro umili abitazioni e nel secondo, con la distribuzione dell’intero composto alimentare.
Era lì, in quelle case, dove aleggiava un’aura di sacralità e di serenità, che si poteva assistere a una scena capace di tenere legata l’attenzione delle persone e che si svolgeva in un silenzio assoluto rotto soltanto dal debole brusio delle preghiere recitate in gruppo dal sacerdote, dagli uomini e dalle donne genuflessi davanti a un tavolinetto modestamente imbandito, benedetto dal sacerdote, con sopra esposta l’icona della Sacra Famiglia.
Consisteva nell’atto inteso a richiamare alla memoria quell’uomo povero che nella Galilea, quando governava il crudele Erode, girava chiedendo una carità da tutti negata; era l’atto dell’offerta dell’elemosina, “di la vuccatejia”.
La tradizione voleva che fossero i componenti della famiglia che aveva fatto il voto a servire ciascuno dei tre seduti a quel tavolinetto chiamati a simboleggiare Gesù, Giuseppe e Maria, mentre le decine e decine di mendicanti soli e senza un tetto che affollavano le viuzze del paese, nonché i poveri che qui vivevano nella solitudine, erano in paziente attesa di ricevere anche loro l’agognata “vuccatejia”, la boccata di cibo.
Occorre far notare che nello svolgimento della “azione scenica” di cui sopra, significativo era il modo di comportarsi dei tre di fronte alla ciotola contenente il cibo somministrato: essi in quel momento dovevano semplicemente assaggiarlo poiché per poterlo consumare dovevano attendere che gli venisse portato a casa analogamente a come si faceva per gli altri poveri, con l’unica differenza che solo a loro si portava in più una bottiglia di vino, una piccola forma di pane fatto con farina di mais, “pizzatiejiu”, un tipo di pane lavorato a mano e cotto qualche giorno prima nel forno a legna della stessa casa, e un certo numero di ciambelle, “curujicchi”, anch’esse fatte con farina di mais e fritte nell’olio di oliva pure qualche giorno prima.
Nel periodo anteguerra e anche dopo per pochi anni ancora, le tre persone, per poter partecipare a “lu cumbitu”, dovevano avere particolari requisiti: appartenere a famiglie in condizioni economiche disagiate, essere moralmente integre e osservanti dei precetti della religione cattolica, essersi prima confessate e comunicate, per quanto riguarda il bambino, essere al decimo anno e la donna essere nubile e casta.
“Lu cumbitu” dei padri, diversamente da oggi, si concludeva con la distribuzione del preparato, de “la divuziuoni di San Giusieppi”, frutto di tante privazioni personali; a questo lavoro prendevano parte uomini, donne e ragazzi in quanto, come già detto, il diciannove marzo era il giorno dedicato all’aiuto ai bisognosi.
Per coloro che partecipavano, soffermarsi quell’istante necessario per porgere il misero pasto ed essere costretti a osservare anche di sfuggita i visi di molti mendicanti con evidenti i segni della malaria, della tisi e di altre infermità, era una visione straziante che rimaneva impressa nella mente e negli occhi.
Era questo “lu cumbitu” di ieri!
Oggi, che le circostanze sono cambiate in seguito alle mutate condizioni del tessuto sociale, a rendere di nuovo vivo e presente quel passato riconducibile al culto religioso degli antenati sono le donne, poiché la tradizione si mantiene molto sentita.
Per non lasciare che cada nell’oblio, esse, non più singolarmente, come avveniva fino a pochi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, ma in gruppo, lo organizzano e lo attuano seguendo lo stesso metodo e con lo stesso amore degli avi.
Preparano il cibo nell’abitazione di una di loro in quantità tale da poter bastare anche per chi passando si ferma per assistere al rito e sia pure con qualche “tocco di modernismo”, in un’atmosfera densa di raccoglimento e commozione, in tre momenti consecutivi lo portano a compimento.
Nel primo, quello introduttivo, che svolgono come vuole la tradizione alla presenza del parroco e di numerosi fedeli, i quali assistono e partecipano religiosamente, compiono l’atto devozionale fondamentale: fanno la carità con il cibo già benedetto ai poveri rappresentati dai tre della Sacra Famiglia.
Nel secondo, mancando per fortuna quelli di una volta, formano tante porzioni quanti sono i limpidesi presenti in paese, nessuno escluso perché “lu cumbitu” è un elemento di coesione della comunità e in questo giorno si mettono da parte dissidi e inimicizie, e le fanno portare direttamente nelle loro abitazioni; contemporaneamente fanno recapitare ai tre figuranti le pietanze in precedenza assaggiate accompagnando ognuna con una piccola forma di pane, “panettiejiu di San Giusieppi”, oggi fatto preparare dal panettiere con farina di grano duro, una bottiglia di vino e un certo numero di ciambelle, “curujicchi o zippuli”, fatte con pasta di farina di mais o grano e fritte nell’olio di oliva.
Nel terzo, quello conclusivo, esaurita la distribuzione agli abitanti, come già detto, tutta la rimanenza viene consumata dagli organizzatori, compresi i collaboratori, e i forestieri presenti, in una atmosfera di compostezza e sobrietà, in una tavolata allestita per accogliere persone di diversa estrazione sociale.
Questo è “lu cumbitu” concepito dai progenitori di Limpidi, un momento che nella sua semplicità, oltre ad essere un puro attestato di fede, vuole essere ancora un messaggio di fraternità; un’esortazione alle genti a non rimanere indifferenti di fronte a coloro che privi del minimo vitale levano alto il grido di dolore sperando di avere ascolto, a quella folla affamata di bambini gravemente denutriti la cui vita è in pericolo e ha un urgente bisogno di aiuto, alle donne sole e indifese, ai vecchi, ai disoccupati, agli emarginati; un incoraggiamento a stare vicini con spirito fraterno e solidale a quella moltitudine anonima di disperati, vittima di persecuzioni, che sognando la libertà e l’affrancamento dalla miseria estrema fugge da feroci dittature, da paesi in continua guerra intestina o in cui esiste già o incombe la minaccia della carestia, anche sfidando e affrontando gli eventi avversi della natura.
Limpidi, 22 Settembre 2021