-Donna Mariantuania bongiorno!
Allura, c'aju pemmu vi fazzu oje?
Ma vui, sempe lu stiassu puzzuniattu mi portati?
Chistu, oramai, este buano sulu 'mu chjantati 'u petrusinu!
Este tuttu cunzumatu, cuamu la sola di li scarpi mia!
Li manici, a furia pemmu saldu, si ridduciru a dui muzzuni!
Lu stagnu, ccà, non sacciu cchjiù duv'aju 'mu lu miantu!
Ccà spenditi sulu sordi!
Sentiti a mia, cangiativillu cû chista coddareja nova nova!
Mi meravigghju di vui chi siti puru 'na majistra!
Pezza ca ti ripezza, quandu all'urtimu, nescia 'n'emerita schifezza!
Puru vui lu diciti: duve orditu non c'è, no' nci po' essere mancu trama!
Lu viditi 'stu pistuni?
Batti ca ti ribatti, este tuttu cunzumatu!
Cchjù la rami è vecchia e cchjù si pista!
-Aviti ragiuni Mastru Nicola! Lu niru di li vrasi non appara li pertusa!
Giovanni Luzzi
Dedicata a Sandro Rottura -'u figghju da Majistra- per il suo compleanno.
Ad maiora
Vinne 'a Lambretta?
No'! Ancora no'!
Allura sbrigati, ca' mo' arriva! Fanci puastu 'nto catuaju pemmu scarricannu i fusti! E mi raccumandu, nommu ruppanu nente!
Va buanu, arriipu tuttu! Tu, no' ti proccupare!
Ma, quandu cazzu arriva stú benedittu Peppinu?
È cchjù i n'ura c'aspiattu! Nommu 'nci succediu 'ncuna cosa? Vaju 'u viju! Tu aspetta ccá!
(Scendendo, nella viuzza dietro l'angolo, vede la Lambretta mezza ribaltata.)
Peppinu! Peppinu! Chi ti succediu? Fujiti cristiani fujiti! Peppinu duve sii? Rispundi!
Oh Gesù! Peppinu rispundi! Fujiti gianti!
Peppinu rispundi! Peppinu, Peppinu! Duva sii?
(Cominciano ad arrivare persone, tutte allarmate vedendo la Lambretta mezza accappottata.)
Ma ccá dinta Peppinu no' 'nce'! Peppinu! Peppinu! Oh Madonna mia! Duv'e' Peppinu?
Tutti chiamano: Peppinu! Peppinu!
E Peppinu nente!
(Ad un certo momento una voce flebile, molto flebile, si fa largo tra le grida...)
Ccittu! Ccittu! Stati tutti ccittu! No' parrati!
... c c à ... s u g n u ... c c à ...
... a j u t a t i m i c r i s t i a n i ... a j u t a t i m i ...
I sutta! I sutta! Sta 'ccá sutta!
Oh Madonna mia! È di sutta, sutta e fusti!
Peppinu! Peppinu! Sii vivu? Cuamu stai?
... a j u t a t i m i ... a j u t a t i mi ... m u a r u ...
No', no'! No' morire! Mo' t'ajutamu!
Si, si! Mo' t'ajutamu! No' morire!
Cacciati 'sti fusti! I fusti! Cacciamu i fusti!
(Per la posizione inclinata i fusti sono tutti incastrati tra di essi, uno sopra l'altro.)
I fusti, i fusti! Tiratili! Movimundi mannaja lu cui! Cacciamu i fusti!
Ma i fusti nente, no' si movanu!
Oh cazzu benedittu! Stí fusti sugnu tutti 'ncastrati!
Pigghjati 'ncuna cosa! 'Na pala! 'Nu marruggiu! Datimi 'nu marruggiu! 'Nu marruggiu! Cuamu cazzu s'incastraru? Peppinu tianiti forte! Mo' cacciamu i fusti! Peppinu rispundi! Peppinu!
... s i ... s i ... i ... f u s t i ...
È vivu! È vivu! Peppinu è vivu!!
Nu' fiarru! Pigghjati nu' fiarru! 'Nci vole nu' fiarru!
Nente! I fusti sempe 'ncastrati sugnu!
Prova tu ca' pruavu io, nente!
Ribaltamu 'a Lambretta!
Ribaltamu 'a Lambretta!
No! No! Chi cazzu haciti! Accussí 'u 'mmazzamu du tuttu! S'impitta! No' viditi c'accussí s'impitta? S'impitta sutt' e fusti! Oh Madonna mia! Cuamu si po' fare?
... d'arriadu 'na vuci ...
I margheriti ... i margheriti! Apriti i margheriti! Svacantati i fusti! Svacantati i fusti!
Sii! Sii! Svacantamu i fusti! I fusti svacantati no' puannu 'cchjiú 'mpittare!
Svacantamu i fusti?? Cuamu svacantamu i fusti!! Nooo! Nooo! Chi cazzu jati diciandu? I fusti nooo, nooo! Né svacantati! E l'uagghju mio?? È l'uagghjju mio!! Nooo! Nooo! Peppinu! Peppinu! Niasci i juacu! Niasci i jocassutta! Forza! Niasci i juacu! No' mi jettati l'uagghjju! È l'uagghjju mio!! Peppinu! Peppinu! Si mi jettanu l'uagghju io t'ammazzu! Sii t'ammazzu! Io t'ammazzu!
Io t'ammazzu cû li mani mia! Accussì t'impari pemmu guidi 'a Lambretta sempe 'mbriacu, cazzu!
Giovanni Luzzi
27.04.2022 scritta per il compleanno del mio amico Pasquale Rosano
Nell’entroterra calabrese esistono alcuni piccoli borghi disabitati, dove non è facile arrivarci, sia perché sorgono in luoghi impervi sia per le poche strade di accesso, solitamente difficili da percorrere. Ce ne sono anche altri ubicati in località facilmente raggiungibili in cui tuttora vive un numero molto ridotto di persone, in prevalenza anziane.
Dei primi, oramai senza più vita, solo le mura sgretolate possono essere i testimoni muti della loro storia, mentre di molti dei secondi si ha l’impressione che si ignori l’esistenza tant’è impressionante lo stato di abbandono in cui si trovano.
Per i primi, purtroppo, a causa dell’assoluta mancanza delle tracce di coloro che ci hanno vissuto, è ormai del tutto inutile qualsiasi ricerca volta a reperire elementi necessari per fare una ricostruzione delle vicende umane, piccole o grandi, che li hanno segnati.
Nei secondi, malgrado la situazione di noncuranza, c’è ancora chi non è disposto a rimettersi alla fatalità di vedere il luogo natio subire la stessa sorte e con esso assistere alla scomparsa del patrimonio avito, un patrimonio legato ai valori e alle tradizioni in cui è racchiusa tutta la saggezza delle vecchie comunità contadine locali.
È il caso di Limpidi, con un passato pieno di vita, dove oggi le poche persone che vi abitano lottano strenuamente affinché con il paese non muoia anche la memoria delle loro radici.
È qui, infatti, che un appuntamento festivo, una tradizione sentita in maniera forte e radicata, che trova il suo principio nell’antichità, rivive e torna puntualmente alla ribalta grazie alla pervicacia delle donne, coadiuvate finanziariamente dai pochi nuclei familiari scampati alla “falcidia” dello spopolamento.
Si tratta di una usanza “nobile”, inusuale rispetto alla cultura di vita d’un tempo, che nei secoli, ogni 19 marzo, ha visto i limpidesi tralasciare tutte le altre attività per porgere la mano ai poveri, ai senza voce, al cosiddetto sottoproletariato; di una consuetudine conosciuta nel dialetto locale come “lu cumbitu”, ossia l’invito: l’invito rivolto a costoro a convergere a Limpidi, nel giorno dedicato al loro Santo Patrono, per condividere tutti insieme la semplice mensa approntata per loro con immenso amore da gente del popolo.
Si tratta della rievocazione in ambiente moderno del modo di fare schietto di gente vissuta in un mondo che non esiste più; della esternazione di un sentimento religioso per onorare degnamente San Giuseppe, considerato uomo giusto e fedele a Dio, immagine della purezza e protettore dei poveri e, secondo la tradizione popolare, anche degli orfani e delle giovani nubili; di un antico rituale che nulla ha perduto del suo spirito originario, privo di spunti scenografici, che vuole essere come una volta l’esaltazione della carità, che è il “leitmotiv” della manifestazione, il motivo conduttore; che ricorda cose capaci di destare ancora ammirazione.
Si traduce nella preparazione di un cibo, originariamente composto da un misto di soli prodotti della terra e via via arricchito negli anni con altri ingredienti di basso costo, che, da più di un decennio a questa parte, il diciannove marzo viene consumato da tutti gli abitanti, dagli organizzatori, compresi i collaboratori, e dai forestieri presenti nel paese.
Quando le disuguaglianze, la povertà e ogni specie di malattia affliggevano la maggior parte della popolazione del Sud Italia, “lu cumbitu” aveva un solo scopo, quello della beneficenza, e gli organizzatori erano generalmente famiglie non abbienti, consapevoli che la sola spesa per l’acquisto dell’occorrente avrebbe comportato a loro privazioni e rinunce a causa del disagio economico in cui versavano.
Lo realizzavano, anche ricorrendo all’aiuto di altre persone del paese, sempre per assolvere il debito che avevano nei confronti di un voto fatto, “per sfamare i poveri”, rimanendo essi stessi per quel giorno digiuni e lo portavano a compimento in due momenti distinti: nel primo, con una breve cerimonia che aveva luogo, malgrado l’esigua disponibilità di spazio, nelle loro umili abitazioni e nel secondo, con la distribuzione dell’intero composto alimentare.
Era lì, in quelle case, dove aleggiava un’aura di sacralità e di serenità, che si poteva assistere a una scena capace di tenere legata l’attenzione delle persone e che si svolgeva in un silenzio assoluto rotto soltanto dal debole brusio delle preghiere recitate in gruppo dal sacerdote, dagli uomini e dalle donne genuflessi davanti a un tavolinetto modestamente imbandito, benedetto dal sacerdote, con sopra esposta l’icona della Sacra Famiglia.
Consisteva nell’atto inteso a richiamare alla memoria quell’uomo povero che nella Galilea, quando governava il crudele Erode, girava chiedendo una carità da tutti negata; era l’atto dell’offerta dell’elemosina, “di la vuccatejia”.
La tradizione voleva che fossero i componenti della famiglia che aveva fatto il voto a servire ciascuno dei tre seduti a quel tavolinetto chiamati a simboleggiare Gesù, Giuseppe e Maria, mentre le decine e decine di mendicanti soli e senza un tetto che affollavano le viuzze del paese, nonché i poveri che qui vivevano nella solitudine, erano in paziente attesa di ricevere anche loro l’agognata “vuccatejia”, la boccata di cibo.
Occorre far notare che nello svolgimento della “azione scenica” di cui sopra, significativo era il modo di comportarsi dei tre di fronte alla ciotola contenente il cibo somministrato: essi in quel momento dovevano semplicemente assaggiarlo poiché per poterlo consumare dovevano attendere che gli venisse portato a casa analogamente a come si faceva per gli altri poveri, con l’unica differenza che solo a loro si portava in più una bottiglia di vino, una piccola forma di pane fatto con farina di mais, “pizzatiejiu”, un tipo di pane lavorato a mano e cotto qualche giorno prima nel forno a legna della stessa casa, e un certo numero di ciambelle, “curujicchi”, anch’esse fatte con farina di mais e fritte nell’olio di oliva pure qualche giorno prima.
Nel periodo anteguerra e anche dopo per pochi anni ancora, le tre persone, per poter partecipare a “lu cumbitu”, dovevano avere particolari requisiti: appartenere a famiglie in condizioni economiche disagiate, essere moralmente integre e osservanti dei precetti della religione cattolica, essersi prima confessate e comunicate, per quanto riguarda il bambino, essere al decimo anno e la donna essere nubile e casta.
“Lu cumbitu” dei padri, diversamente da oggi, si concludeva con la distribuzione del preparato, de “la divuziuoni di San Giusieppi”, frutto di tante privazioni personali; a questo lavoro prendevano parte uomini, donne e ragazzi in quanto, come già detto, il diciannove marzo era il giorno dedicato all’aiuto ai bisognosi.
Per coloro che partecipavano, soffermarsi quell’istante necessario per porgere il misero pasto ed essere costretti a osservare anche di sfuggita i visi di molti mendicanti con evidenti i segni della malaria, della tisi e di altre infermità, era una visione straziante che rimaneva impressa nella mente e negli occhi.
Era questo “lu cumbitu” di ieri!
Oggi, che le circostanze sono cambiate in seguito alle mutate condizioni del tessuto sociale, a rendere di nuovo vivo e presente quel passato riconducibile al culto religioso degli antenati sono le donne, poiché la tradizione si mantiene molto sentita.
Per non lasciare che cada nell’oblio, esse, non più singolarmente, come avveniva fino a pochi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, ma in gruppo, lo organizzano e lo attuano seguendo lo stesso metodo e con lo stesso amore degli avi.
Preparano il cibo nell’abitazione di una di loro in quantità tale da poter bastare anche per chi passando si ferma per assistere al rito e sia pure con qualche “tocco di modernismo”, in un’atmosfera densa di raccoglimento e commozione, in tre momenti consecutivi lo portano a compimento.
Nel primo, quello introduttivo, che svolgono come vuole la tradizione alla presenza del parroco e di numerosi fedeli, i quali assistono e partecipano religiosamente, compiono l’atto devozionale fondamentale: fanno la carità con il cibo già benedetto ai poveri rappresentati dai tre della Sacra Famiglia.
Nel secondo, mancando per fortuna quelli di una volta, formano tante porzioni quanti sono i limpidesi presenti in paese, nessuno escluso perché “lu cumbitu” è un elemento di coesione della comunità e in questo giorno si mettono da parte dissidi e inimicizie, e le fanno portare direttamente nelle loro abitazioni; contemporaneamente fanno recapitare ai tre figuranti le pietanze in precedenza assaggiate accompagnando ognuna con una piccola forma di pane, “panettiejiu di San Giusieppi”, oggi fatto preparare dal panettiere con farina di grano duro, una bottiglia di vino e un certo numero di ciambelle, “curujicchi o zippuli”, fatte con pasta di farina di mais o grano e fritte nell’olio di oliva.
Nel terzo, quello conclusivo, esaurita la distribuzione agli abitanti, come già detto, tutta la rimanenza viene consumata dagli organizzatori, compresi i collaboratori, e i forestieri presenti, in una atmosfera di compostezza e sobrietà, in una tavolata allestita per accogliere persone di diversa estrazione sociale.
Questo è “lu cumbitu” concepito dai progenitori di Limpidi, un momento che nella sua semplicità, oltre ad essere un puro attestato di fede, vuole essere ancora un messaggio di fraternità; un’esortazione alle genti a non rimanere indifferenti di fronte a coloro che privi del minimo vitale levano alto il grido di dolore sperando di avere ascolto, a quella folla affamata di bambini gravemente denutriti la cui vita è in pericolo e ha un urgente bisogno di aiuto, alle donne sole e indifese, ai vecchi, ai disoccupati, agli emarginati; un incoraggiamento a stare vicini con spirito fraterno e solidale a quella moltitudine anonima di disperati, vittima di persecuzioni, che sognando la libertà e l’affrancamento dalla miseria estrema fugge da feroci dittature, da paesi in continua guerra intestina o in cui esiste già o incombe la minaccia della carestia, anche sfidando e affrontando gli eventi avversi della natura.
Limpidi, 22 Settembre 2021
C’è stato un tempo in cui in Acquaro è vissuto un uomo conosciuto col nome di ‘Ntuoni o ‘Ntonino.
Era un contadino, un onesto lavoratore della terra, che abitava nel quartiere oggi individuato come “donn’Antuoni”, con molta probabilità nella via oggi chiamata Via Antonino.
Oltre al modesto alloggio possedeva un piccolo fondo e un asinello con cui era costretto a “coabitare”: erano questi tutti i suoi averi.
Ntuoni o ‘Ntonino non aveva famiglia e solo, sistematicamente tutte le mattine, di buonora, usciva da casa.
Lo faceva portandosi sempre dietro il somarello del quale, in alcuni giorni, si serviva per effettuare il trasporto di cose per conto di terze persone, negli altri per farsi portare nella località in cui era situato il “bene” dove trascorreva le giornate lavorandolo accuratamente.
Dalla vendita dei suoi frutti, a volte magri, ricavava il denaro che, sommato a quello proveniente dal lavoro del quadrupede, gli consentiva di potere sbarcare il lunario.
Viveva nel suo mondo contento del suo stato il mite ‘Ntuoni o ‘Ntonino, senza altre aspirazioni se non quelle di lavorare e vivere in armonia con se stesso e con il prossimo.
Sennonché un brutto giorno, esattamente a causa del fondo, qualcuno volle turbare la sua tranquillità: come recita l’antico proverbio “stà buonu unu fina chi vole l’atru”.
Così formato, quel pezzo di terra, dal punto di vista planimetrico era “incuneato” in un vasto possedimento baronale con il quale confinava da tre lati mentre con il quarto confinava con una strada pubblica.
Sfortunatamente per ‘Ntuoni o ‘Ntonino, il possedimento, essendo morto il vecchio proprietario, era passato per successione al figlio, persona di caratura morale ben diversa da quella del padre, il quale, appena entrato in possesso, come inizio, dimostrò di non volere più continuare a mantenere con nessuno dei confinanti, in particolare con lui, gli stessi rapporti di buon vicinato di prima, dando inizio alle ostilità.
Infatti, dapprima, gli mandò a dire, tramite due servi, che “voleva” comprare quella che per lui era semplicemente una “striscia di terra” e che come controvalore era disposto a pagare una quantità di denaro molto remunerativa, successivamente, forse interpretando come una sfida il rifiuto di ‘Ntuoni o ‘Ntonino di prendere in considerazione la sua proposta di acquisto, determinato com’era ad averla vinta, passò alle maniere forti ordinando ai suoi servi di provocarlo con ogni forma di molestia per indurlo a recedere dal precedente proponimento.
Seguirono infatti, nel fondo di ‘Ntuoni o ‘Ntonino, una serie di danneggiamenti alle colture erbacee ed arboree, frequenti interruzioni del flusso nel canale dell’acqua d’irrigazione e persino in alcuni punti la rimozione e l’alterazione dei confini, con l’accusa di essere stato addirittura lui l’autore di queste ultime malefatte.
Per altri, tutto questo, sarebbe stato sufficiente per indurli ad accettare la proposta di vendita, non così per il mite, ma non pavido ‘Ntuoni o ‘Ntonino, il quale, “strinse i denti” e si predispose psicologicamente all'eventualità di affrontare il verificarsi di cose ben più spiacevoli.
Però non aveva previsto che potesse succedere un fatto che lo avrebbe messo con le spalle al muro: quel potente vista la tenacia con la quale egli si opponeva al suo volere aveva deciso di intentargli un procedimento giudiziario.
I suoi “uomini di legge”, avevano “fabbricato” l’accusa: ‘Ntuoni o ‘Ntonino era colpevole del reato di detenzione abusiva di gran parte del terreno di cui si era appropriato a poco a poco fraudolentemente durante gli anni e pertanto doveva sentirsi condannato alla sua restituzione.
Era un’accusa priva di fondamento, una calunnia che doveva essere confutata.
Si vide perso il povero ‘Ntuoni o ‘Ntonino, egli non era che un misero “zappatore” che viveva alla giornata e non aveva i denari necessari per pagare chi lo potesse difendere di fronte al giudice e dimostrare che il fondo, posseduto da tempo immemorabile dai suoi avi, non aveva subito nessuna modificazione nella superficie.
E poi quandanche fosse riuscito a trovare i denari per difendersi ci sarebbe stato qualcuno non asservito ai potenti propenso a dargli credito anziché avvalorare i motivi artatamente creati dall’altro convinto che qualsiasi giudice gli avrebbe dato ragione?
Era tormentato da questi dubbi, ma non avvilito ‘Ntuoni o ‘Ntonino, e tuttavia deciso a difendersi fino all'ultimo prima di cedere accettò di affrontare il giudizio.
Come prima cosa, caparbiamente, si adoperò per trovare un avvocato disposto a difenderlo e ci riuscì, perché uno giovane si dichiarò disposto a “perorare la causa” convinto della sua incolpevolezza e poi, per procurarsi il denaro occorrente per le spese legali, con la morte nel cuore, non avendo altre possibilità, decise di compiere un sacrificio estremo: vendere il suo paziente compagno, l’asinello.
E, come si verificò per il mugnaio Arnold di Sans-Souci del famoso racconto e della sua lotta per ottenere giustizia contro i soprusi di un nobile, anche per ‘Ntuoni o ‘Ntonino ci fu un giudice onesto il quale, fermamente convinto che l’accusa nasceva solamente da un capriccio, lo scagionò facendogli vincere la causa.
La vicenda destò scalpore, fece notizia, e ‘Ntuoni o ‘Ntonino diventò tanto popolare da arrivare a ricevere pubbliche manifestazioni di stima, di ossequio.
Davide aveva sconfitto Golia e dovunque si trovasse veniva trattato con deferenza, mai un uomo di sì umili condizioni era riuscito vincente in una contesa che in partenza lo vedeva soccombente: questo piccolo contadino era un gigante, stava scrivendo una superba pagina di storia.
Specialmente nel proprio paese, Acquaro, lo stupore per l’essere stato pronto a privarsi di un bene, per lui di vitale importanza, allo scopo di difendere la propria dignità di uomo libero e integro, fu tale da indurre la comunità del suo e anche di altri rioni a organizzare una raccolta della quantità di denari necessari per l’acquisto di un asinello che lo aiutasse a continuare a svolgere il lavoro di prima.
Ma non solo, perché il fatto di avere sconfitto la prepotenza, benché impossibile, con la sola arma della forza d'animo, gli valse il conferimento di un appellativo onorifico uguale a quello che veniva assegnato durante il regno delle due Sicilie ai personaggi che si erano distinti per particolari benemerenze.
Infatti rivolgendosi a lui tutti anteponevano l’appellativo onorifico di “Don”, quindi non più semplicemente ‘Ntuoni ma Donn’Antuoni.
Ubaldo Doré
Ciccio stentava a crederci! ... Finalmente il suo tanto atteso sogno si era avverato: si trovava a Buenos Aires, calpestava il suolo argentino. Il tutto si era concretizzato in maniera casuale, senza la minima programmazione quasi si trattasse di una gitarella in campagna. Un amico che lavorava presso il Ministero degli Esteri, gli aveva fatto sapere che la “Famiglia Argentina” con sede in Roma, stava allestendo un volo charter alla volta di Buenos Aires della durata di 20 giorni in occasione delle festività natalizie. Lo informava altresì che la quota di partecipazione era molto allettante e che i posti disponibili stavano per esaurirsi, pertanto semmai fosse interessato all’iniziativa necessitava muoversi con una certa urgenza. Ciccio in preda ad un’euforia irrefrenabile rientrando in casa pregò in ginocchio la moglie di non fargli perdere la favorevole occasione che gli avrebbe permesso di riabbracciare il fratello che non vedeva da oltre 35 anni. La povera moglie investita da una fiumana di suppliche e implorazioni strinse le spalle come per dire: “Fai come ti pare!”. Altrettante preghiere riversò in ufficio per avere il permesso di assentarsi per il periodo necessario e così, quasi senza accorgersene, partì con il cuore gonfio di emozione verso la terra dei “guachos”. Adesso era là di fronte alla maestosa Casa Rosada, sede centrale del potere esecutivo della Repubblica Argentina a due passi della storica “Plaza de Mayo” a guardare estasiato quel maestoso monumento nazionale. Era in trance! ... Tutto quello che cadeva sotto i suoi occhi diventava bello, interessante e favoloso. Il suo accompagnatore che quasi sempre era il nipote, l’osservava con un’espressione alquanto perplessa e di tanto in tanto con fare incuriosito gli chiedeva: “Scusa zio, ma dove vedi tutta questa favolosità! ... ”.
La verità è che Ciccio non guardava con gli occhi, lui si muoveva come un automa in quei luoghi che più volte aveva vissuto nei sogni, spinto dalle magiche sensazioni che sin da bambino aveva accumulato nella sua fantasia ascoltando i racconti, che nelle serate d’estate nella minuscola piazzetta del paese, gli anziani compaesani raccontavano con struggente nostalgia le loro lontane peripezie da emigranti. Nella sua mente si alternava una fantasmagoria di pseudonimi come: “Ciaccaritta” (Chacarita – snodo ferroviario), “Lu rio” (Rio de la Plata), “Lu Mari di Plata” (Mar del Plata), “Lu Coloni” (Teatro Colon), “Caggiola Caminitu” (Cage Caminito) e via di questo passo.
Smaltita però la sbornia di incantamento dei primi giorni rientrando a poco a poco nella sua normale capacità intellettiva, incominciò a vedere le cose nella giusta dimensione apprezzando la parte bella della città come: Plaza di Majo, Palermo, Plaza Italia, Currientes, Florida, Avenida 9 de Julio, e storcendo le labbra e criticando dove c’era qualcosa che non andava. La più cocente delusione l’ebbe nel visitare la zona del porto che si presentava in uno stato di trascuratezza avanzata e diversi fabbricati risultavano transennati per il pericolo di crolli imminenti. Tutte le belle storie che i compaesani gli avevano raccontato su quell’imponente snodo portuale frequentato da bellissime donne sensuali, di musicisti strepitosi, di famosi ballerini di tango e di poeti, si presentava desolante, fatiscente e colmo di rifiuti di ogni genere. I tanti locali ubicati a livello di strada una volta ricchi di vita e di scambi commerciali, risultavano sprangati e militari con le camionette a sirene spiegate andavano su e giù nell’immensa area deserta per allontanare qualche ladruncolo o qualche barbone che cercava un luogo appartato per passare la notte. Erano gli anni ‘80 e in quel periodo il paese stava attraversando un periodo molto difficile. Dopo una lunga sequela di governi militari che avevano messo in ginocchio l’intera nazione, si stava cercando di intraprendere nuovi processi politici per dare una svolta positiva alla crescita del paese. (Lasciamo comunque perdere la parte politica che non è il nostro forte).
Si trovava già da dieci giorni nella grande capitale ricca di popolazione, di luci e di colori quando il fratello suggerì di andare per qualche giorno a Mar Del Plata, città situata sulla costa dell’Oceano Atlantico e definita per la sua bellezza appunto “La perla dell’Atlantico”. Ciccio era fuori di testa per la contentezza. Non vedeva l’ora di partire e toccare con mano la scogliera da dove la poetessa Alfonsina Storni, di origine italiana, si era gettata nel mare suicidandosi, sfidando con scelta freddamente programmata, il male incurabile che aveva invaso il suo fragile corpo. I circa 450 km che separano Buenos Aires da Mar del Plata li fece in macchina in compagnia del fratello Antonio che faceva anche d’autista, della cognata Rosina e del nipote Giuseppe giovane studente universitario di circa venti anni. Avrebbero pernottato una volta giunti sul posto in una bella villetta con tanto verde intorno, messa a loro disposizione da un amico limpidese che l’aveva comprata da poco per trascorrere al mare con la propria famiglia i week end settimanali (per gli argentini fare in un giorno 400 o 500 chilometri è come andare al bar per prendere il caffè). La permanenza nella bellissima città non doveva comunque superare i quattro giorni stante l’impellente data di rientro in Italia che non permetteva proroghe. Mar Del Plata l’affascinò in tutto e per tutto; città incantevole molto elegante. Il primo giorno lo trascorse nel fastoso scenario dei Boulevard marittimi visitando palazzi maestosi e monumenti di rara bellezza. Rimase incantato davanti alla statua equestre del Generale San Martin ed alla sfarzosa mole architettonica che presentava la riserva del porto “Lobos Marinos”. Si commosse davanti alla modesta stele che ricordava la grande poetessa Storni ed altrettanto incantato rimase nel visitare il “Casinos de la Provincia”, Casinò importante e famoso che si trova sul lungomare omonimo e che con il Gran Hotel Provincial forma uno sfarzoso complesso architettonico monumentale.
Il giorno seguente il fratello l’informò che si sarebbero recati a far visita a Domenico (Mingo per gli amici) un caro compaesano limpidese, unico fra i tanti emigrati in Argentina che risiedeva stabilmente nella bella città balneare. Gli amici scherzosamente lo chiamavano “malu signu” (brutto segno) per il suo intercalare della frase in quasi tutti i suoi discorsi e in quei giorni stante la veneranda età stava attraversando un periodo di salute alquanto cagionevole. L’anziano alla visita dei graditi ospiti si emozionò così tanto che le lacrime gli colavano copiose lungo le incavate guance. Altrettanta commozione dimostrò la moglie Nunziata rientrata di corsa in casa dal richiamo continuo e prolungato del consorte. Mingo voleva alzarsi dalla sedia a rotelle in cui era posizionato, assicurando che era in grado di reggersi in piedi e camminare da solo. Ma tutti i presenti l’indussero a non fare sforzi e starsene buono, buono nella sua forse scomoda posizione. Si rammaricò quando si rese conto che Antonio aveva portato una enorme quantità di carne per la preparazione dell’asado (arrosto alla brace). Chiedeva con insistenza alla moglie di rimborsare i soldi agli ospiti caso contrario non avrebbe assaggiato nemmeno un osso. Ma Antonio sapeva come ammansire e rendere innocuo il compaesano: alzò le braccia in forma di arresa incondizionata e avvicinandosi alla macchina camminando all’indietro così l’apostrofò: “Mingo!... Se tu mi vuoi rimborsare i soldi, va bene io me li prendo, però sappi che il cofano della macchina lo lascerò chiuso e ... tutto finisce qua, se però viceversa mi prometti di non parlare più di rimborso allora io ... ”.
Mingo strinse le labbra e le spalle in senso di sconfitta e con uno sguardo da perdente (intercalando più volte l’espressione “malu signu”) rispose: “lo sapevo che mi avresti colpito al cuore. Tirala fuori perché non vedo l’ora che incominci.”. Antonio con molta cautela, come se stesse recitando una scena di un’opera teatrale, estrasse dal cofano della macchina la sua bella chitarra acustica tutta luccicante e senza proferire parola con un’impostazione di voce alta, spiegata da vero tenore intonò:
“Chist è o paese d'o sole,
chist'è 'o paese d' 'o mare,
chist'è 'o paese addó tutt''e pparole
só doce o só amare,
só sempe parole d'ammore!”
All’applauso spontaneo dei presenti si aggiunse anche una voce dalla vicina abitazione che ripeteva “ENCANTADO ... ENCANTADO ...”. La più entusiasta era Nunziata che tra una canzone e l’altra girava con un vassoio di bibite fresche tessendo lodi ad Antonio per la magnifica voce ed al fascino delle canzoni napoletane: “Napoli è bella assai .... Io ce l’ho qua, nel cuore, mai potrò dimenticarmi il grandissimo porto da dove ci siamo imbarcati tanti anni addietro e .... poi ... diglielo Mingo, diglielo tu che cosa ci è successo quel mattino prima di salire sulla nave.”. Il vecchio non parlava, stava con la testa abbassata e con gli occhi socchiusi.
“Lui si vergogna, non vuole mai parlarne di questo particolare, ve lo racconto io: il giorno che dovevamo imbarcarci la Madonna del Carmine ci ha fatto un miracolo. Sì, sì, un grande miracolo. Due delinquenti volevano derubarci delle poche cose che avevamo nella nostra bisaccia e non solo, volevano usare violenza su di me. Ma ... Mingo grazie all’intervento della Madonna che io in quel momento invocavo con tutte le mie forze, con quattro calci e due pugni ha lasciato quei due malviventi per terra tramortiti e siamo scappati. Guardate che non sto scherzando! ... Diglielo tu Mingo che è tutto vero e che non sto inventando nulla.” Il marito affondato nella sua sedia a rotelle sembrava non volesse dare importanza alle parole dalla moglie e con la mano tesa faceva segno ad Antonio di lasciar perdere e di continuare nel suo repertorio canoro. Le tante melodie napoletane, si susseguirono per una buona oretta, poi verso mezzogiorno l’attenzione fu tutta rivolta alla preparazione dell’asado. La tavolata venne allestita in quattro e quattr’otto fuori all’aperto sotto una rigogliosa pergola dove da un tralcio penzolava una grossa gabbia con dentro un variopinto pappagallo che sembrava imbalsamato. Ad intervalli cadenzati però gridava: “Mingo ... Mingo ... te chiero” (1) ed il padrone con voce persuasiva, alzando ed abbassando la testa in segno di assenso replicava: “Puru io, puru io, Pedrittu mio.” (2). Il pappagallo si chiamava appunto Pedrito. Erano le quattro del pomeriggio quando i commensali consumarono l’ultimo pezzo di arrosto. Annunziata sparecchiò in tutta fretta perché aveva la necessità di recarsi in farmacia prima che chiudesse per prendere delle medicine. Antonio si dichiarò subito disponibile ad accompagnarla con la macchina ed altrettanto disponibili si dichiararono Rosina e Giuseppe, quest’ultimo perché aveva voglia di una granita al limone per sgrassarsi la bocca per la tanta carne mangiata. Rimase solo Ciccio a tenere compagnia a Mingo che sembrava si fosse appisolato e poiché la chitarra stava in bella vista sulla sedia accanto, la prese e accompagnandosi col solo accordo che conosceva - re maggiore - con un filo di voce iniziò a canticchiare la canzone “me ne vugl’ì all’america”. Mingo, che non stava affatto dormendo, alzò la testa e rivolgendosi al compaesano così l’apostrofò: “Comparuccio avete anche voi, come vostro fratello, una bella voce. Complimenti! ... La canzone che stavate cantando però è molto triste. Mi rammenta dei momenti che vorrei dimenticare! ...”.
“Se volete posso stare zitto.”
“No ... No ... Andate avanti! ... Cantate ... Cantate!”
“Certo che canterò se a voi fa piacere, ma ... scusatemi ... vi posso fare una domanda? ... Vostra moglie ci ha raccontato poc’anzi che il giorno che vi siete imbarcati da Napoli la Madonna del Carmine vi è venuta in aiuto e che grazie alla sua intercessione con quattro calci avete messo a posto i due grossi delinquenti che volevano derubarvi. È una storia vera? Oppure è una storiella che racconta lei per farvi dei complimenti?”
Mingo si morse il labbro superiore per alcuni istanti, poi passandosi la mano destra sul viso come se volesse lavarselo e tentennando più volte con la testa rispose: “Non lo so se la Madonna ci sia venuta veramente in aiuto, mia moglie ne è convita, lei ha troppa fantasia. Diciamo che in un certo senso ci è andata bene. I Santi i miracoli dovrebbero farli prima che le cose brutte si materializzino e si impossessino della nostra esistenza. Poi non so se le preghiere possano servire realmente a qualcosa! ... Malu signu! ... Mah! ... Sentite comparuccio, voi fra qualche giorno ripartirete per l’Italia vero? Se mi giurate solennemente di non fare parola con nessuno, almeno finché non sarete sicuro della mia morte, vi dirò come realmente si sono svolti i fatti in quel maledetto giorno di maggio. Come avete potuto constatare mia moglie parla a vanvera perché non sa la verità e nemmeno lontanamente si immagina quello che realmente è accaduto. Non ne ho mai parlato con nessuno e ancora oggi sento dentro di me una pesantezza che mi affanna e mi opprime e ... credetemi ci penso spesso! Posso contare sulla vostra assoluta discrezione?”.
Ciccio che non si aspettava una simile risposta, con una voce quasi impercettibile rispose: “Certo ... certo ... state tranquillo non proferirò parola con nessuno ve lo giuro!”.
“Ricordatevi comparuccio che avete giurato, bene! ... Voi sapete che io sono limpidese e sono nato il 24 settembre del 1902. Sono cresciuto in una famiglia povera nutrendomi di patate, cicoria e fagioli. Già all’età di sei anni lavoravo nei campi insieme a mio padre e tutte le mattine dovevo alzarmi molto presto anche se il tempo non era dei migliori. A scuola ci sono andato fino alla seconda elementare, poi per motivi che non ho mai capito mi hanno fatto smettere. Tuttavia mi arrangio sia a leggere che a scrivere, mentre i conti li so fare solo a memoria. Le quattro operazioni non le so scrivere. Appena mi sono congedato dal servizio militare ho sposato Nunziata che conoscevo da bambina e come tanti altri giovani miei coetanei facevo “lu ghjornataro”. (3) Un giorno mi pervenne una lettera da mio cugino Nino, che si trovava espatriato in Argentina, con la quale mi chiedeva se ero interessato a lasciare il paese (più di una volta gli avevo palesato il desiderio di raggiungerlo) facendomi capire che aveva per le mani un’ottima occasione lavorativa che sembrava fatta apposta per me. Mi comunicava che il dirigente della sua fabbrica era alla ricerca di una coppia di coniugi da destinare alla custodia ed alla manutenzione del fabbricato che possedeva a Mar del Plata dove si recava tutti i fine settimana. In pratica cercava un operaio che sapesse coltivare l’orto, il vigneto, il frutteto attiguo e curasse tutta l’area verde adiacente, mentre la donna avrebbe dovuto interessarsi della pulizia delle stanze, della lavanderia e della cucina in particolare. La retribuzione era eccellente e mi faceva altresì presente che l’affitto e l’alloggio erano gratuiti. A sentire Nino nel giro di qualche anno avrei potuto racimolare una discreta fortuna per poi se lo desideravo rientrare al paese. Io e mia moglie non sapevamo cosa decidere e ci rimbalzavamo le domande: Tu che ne dici? Tu che ne pensi? Mentre mia suocera si dimostrò subito contraria e faceva di tutto per dissuaderci. Mi ricordo che quando le annunciammo che avevamo deciso di espatriare, la povera donna pianse per due giorni. Poi a furia di prometterle che ci saremmo rimasti per quattro anni al massimo non parlò più, facendoci capire che anche lei condivideva la nostra decisione, ma io penso che faceva finta, in cuor suo soffriva tanto. Mio cugino con urgenza ci fece avere l’atto di chiamata, elemento indispensabile per ottenere il visto di espatrio dal Consolato Argentino che aveva gli uffici a Napoli e che a detta di tutti i compaesani procedeva al disbrigo delle pratiche con enorme lentezza. A noi viceversa ci chiamarono quasi subito. Per racimolare i soldi che ci servivano per il treno e per la permanenza nel capoluogo campano che era previsto in tre giorni, vendemmo quel poco d’olio che ci era stato dato come regalo di nozze da parenti ed amici. In quel periodo ottenere il visto non era cosa facile, veniva concesso soltanto ai richiedenti che superavano i vari controlli sanitari e dimostravano di possedere una buona condotta morale e civile. Chi non superava le visite di idoneità oppure le informazioni delle forze dell’ordine non davano ampia garanzia sulle tendenze politiche che non dovevano essere di sinistra, veniva respinto. Diverse famiglie limpidesi hanno pianto lacrime amare per quel benedetto visto che si son visti negare! Il responso che ricevemmo dopo una quindicina di giorni per nostra fortuna iniziava con la “S” e non con la “C”, per cui capimmo subito che tutto era andato nel migliore dei modi e che ci era stato consentito il nulla osta all’espatrio. (Le lettere che iniziavano con la S in pratica dicevano: Siamo lieti di comunicarle che la visita ha avuto esito favorevole ecc. ecc. ... Mentre le risposte che iniziavano con la lettera C: Ci duole comunicarle che la visita non ha avuto esito favorevole ecc. ecc. ...).” A questo punto iniziò la parte più dolorosa: dovevamo reperire i soldi per il viaggio e noi eravamo proprio in bolletta. Siamo stati costretti a rivolgerci ad un nostro parente per ottenere un prestito e a garanzia del debito gli vincolammo l’unico appezzamento di terreno che possedevamo, ce lo aveva dato in dote il padre di Nunziata. I patti erano chiari: se entro un anno non avremmo rimborsato la somma imprestataci, questo nostro parente era autorizzato o a vendere la terra oppure se lo desiderava tenersela in proprietà. I biglietti ce li prenotò un sub agente della Flotta Italia che aveva l’ufficio ad Arena, sulla nave “Conte di Savoia”, che in quel periodo andava per la maggiore. La partenza era fissata per il 21 maggio. Era l’anno 1925. Da Limpidi partimmo con due giorni di anticipo. Di buon mattino a piedi ci incamminammo alla volta di Dinami, accompagnati da uno stuolo di amici e parenti, dove prendemmo l’autobus che ci portò alla stazione di Rosarno. Bagagli non ne avevamo. I nostri miseri indumenti erano custoditi in una vecchia bisaccia che ce l’aveva regalata mastro Fortunato, nostro vicino di casa.
Prendemmo il treno nel tardo pomeriggio e viaggiamo per tutta la notte. Arrivammo a Napoli che ancora era notte e da altri emigranti venimmo a sapere che l’accesso a bordo della nave era previsto per l’indomani alle ore 7,00. Avevamo quindi un giorno e una notte a disposizione. Non sapevamo cosa fare né tantomeno dove andare. Ci unimmo alla moltitudine di persone che sostavano fuori dell’area portuale e che per passare il tempo cantavano ballate dialettali e raccontavano le storie della loro vita. Sembrava un giorno di mercato per il tanto movimento che c’era. A pranzo mangiammo il pane e il formaggio che avevamo portato da casa mentre la sera siamo andati a cenare in una osteria consigliataci da un giovane abruzzese che a mezzogiorno era andato con la moglie e i due bambini. Si premurò di avvertirci di ordinare, se era nostro interesse spendere poco, soltanto le porzioni di spezzatino perché abbondanti e con tanto sugo per intingerci il pane. Seguimmo il suo consiglio. Quando arrivammo l’osteria era gremita fino all’inverosimile e non c’erano posti disponibili. Aspettammo fuori più di un’ora finché un ragazzo non ci fece segno di avvicinarci e ci sistemò in un cantuccio molto buio pieno di fumo. Mangiammo lo spezzatino con tanto appetito e alla fine il cameriere nel ritirare i piatti poggiò sul nostro tavolo un vassoio colmo di frutta. Restammo alquanto perplessi perché il signore abruzzese non ci aveva parlato di frutta. Sicuramente mangiandola avremmo pagato un supplemento, quindi decidemmo di non toccarla. Nunziata guardando però quelle belle arance sanguigne e quelle mele dorate, con una vocina lieve per non farsi sentire mi supplicò: “Nascondi un’arancia e una mela nella bisaccia, ce le mangeremo poi fuori con calma, tanto con tutta questa confusione nessuno ci farà caso. Bucce nel piatto non ne lasceremo per cui possiamo sempre dire che il vassoio non l’abbiamo toccato.”. Quella proposta mi sembrava avventata e inutile, una ragazzata che poteva costarci cara, e poi una volta fuori come le avremmo sbucciate?... L’arancia sicuramente l’avrei “mondata” con le mani come ero solito fare quando mi trovavo in campagna, ma la mela come l’avremmo mangiata a morsi alterni? Ci serviva un coltello per sbucciarla e per dividerla in pezzetti. Nunziata che non voleva rinunciare al furtarello, senza scomporsi prese il coltello che stava dalla sua parte e porgendomelo mi disse: “Ecco qua, questo fa proprio al caso nostro, mettilo nella tasca della giacca e stai attento a non farlo vedere.”. Devo dire la verità la cosa non mi entusiasmava proprio, ma per non contraddirla e farla rimanere male accettai molto titubante. Nessuno si accorse di nulla e quando uscimmo fuori molte persone erano ancora in attesa di essere chiamate. Facemmo cenno con la mano ad alcuni conoscenti che si mangiava bene e con passo spedito data l’ora tarda ci avviammo verso la vicina chiesa per passare la notte. Trovarla non è stato difficile perché tante altre persone si stavano dirigendo in quella direzione. Abbiamo poi saputo che a Napoli pernottare nelle chiese la notte prima degli imbarchi era una prassi consolidata e questo lo si faceva principalmente per garantire alla massa di emigranti un riparo in caso di pioggia. Trovammo un cantuccio vicino all’altare e ci sdraiammo per terra abituandoci subito a quell’olezzo pesante che sapeva tanto di fogna. Ci svegliammo molto presto in un frastuono di voci e schiamazzi notando che già più di qualcuno trascinando il suo misero bagaglio, sebbene fosse ancora molto presto, si incanalava verso la direzione che conduceva all’imbarco. Noi uscimmo quando ormai in chiesa non c’era più nessuno. Appena fuori Nunziata espresse il desiderio di mangiare la frutta che avevamo fregato la sera prima, ci sedemmo su un muricciolo e guardando la scia dei poveri sventurati che si allontanava a perdita d’occhio. Tirai fuori il coltello e sbucciai prima la mela e poi l’arancia. Dividemmo tutto in parti uguali ridacchiando sulla marachella che avevamo combinata e rimproverandoci a vicenda per non avere nascosto tutto il vassoio. Terminata la nostra modesta colazione raccolsi le bucce per andarle a buttare dalla parte opposta dove c’erano diversi cumoli di rifiuti. Mentre mi avviavo chiesi a Nunziata: “Del coltello che ne faccio? Lo butto?” ... “Certamente”, mi rispose “buttalo perché se te lo trovano in tasca potremmo passare dei guai alla dogana, ha una punta così sottile che sembra “nu scannaturi” (4).”. Mi aggiustai sulle spalle la bisaccia che mi sembrava sempre più leggera e osservando bene il coltello che stavo per buttare mi accorsi che aveva un elegante manico di madreperla con sopra stampata l’immagine del Vesuvio. Mi dispiaceva disfarmene, sarebbe stato un cimelio per il futuro, un bel ricordo di Napoli, così facendo finta di niente me lo riposi in tasca. Nunziata dall’altra parte ancora seduta sul muricciolo non si accorse di nulla. Eravamo rimasti gli unici lungo la strada, tutti gli altri si erano allontanati ed intorno ormai non circolava anima viva. Ci incamminammo con passo svelto per non fare tardi anche se di tempo ancora ce n’era tanto, quando vedemmo uscire da un folto cespuglio due tipi che a prima vista non mi fecero una bella impressione. Vestivano delle camicie militari grigio verdi annodate sul davanti lasciando in bella vista le nudità del petto e della pancia. I pantaloni di fustagno strappati in varie parti presentavano diverse toppe. Uno mi venne vicino e con fare amichevole mi apostrofò: “Paisa’, dovete imbarcarvi pure voi?”. Io col capo feci cenno di sì. “Bene allora seguiteci da questa parte che ci andiamo insieme.” Il suo modo di fare non mi ispirava fiducia anche perché non capivo a quale parte si riferisse, la via proseguiva diritta. Lui intuì il mio dubbio e tirandomi di scatto verso il muretto diroccato che delimitava la carreggiata, mi indicò con la mano un viottolo: “Guarda laggiù! ... Scavalchiamo e facciamo prima.”. Io mi sporsi in avanti per guardare ma non feci in tempo a proferire parola perché quell’energumeno mi prese di peso come un fuscello e mi scaraventò dalla parte opposta dove c’erano solo cespugli e roveti spinosi cresciuti su degli ammassi di macerie. L’altro farabutto fece altrettanto con Nunziata mettendole una mano sulla bocca per impedirle di gridare. Ci trascinarono lungo un sentiero erboso e in un lampo ci trovammo in un posto appartato, pieno di spine e di rifiuti di ogni genere, circondato da muri cadenti avvolti da una vegetazione selvaggia di robinie. In un lontano passato lì di certo sorgeva un fabbricato piuttosto consistente. Se ci avessero ammazzato in quel luogo così occultato, anche se a meno di mezzo chilometro dal porto nessuno ci avrebbe mai trovato. Sembrava un ricettacolo fatto apposta dai furfanti per derubare ed aggredire gli ignari passanti. Il delinquente che si occupava di me, mi contorceva a spirale il braccio sinistro bloccandolo dietro la schiena. Per il dolore lancinante non riuscivo nemmeno a respirare. Voleva a tutti i costi i soldi e l’oro che a suo dire avevamo nascosto da qualche parte, caso contrario ci avrebbe fatto perdere la nave e poi ammazzati senza pietà. Io a monosillabi mi sforzavo di dire qualcosa ma le parole mi si strozzavano in gola per le dolorose fitte. Quel forsennato mi attorcigliava il braccio al punto da farmi svenire. L’altro farabutto aveva portato Nunziata dietro un mucchio di sassi a circa dieci metri più avanti e dal modo di come si comportava e si muoveva avevo capito qual erano le sue schifose intenzioni. Non sapevo cosa fare! ... Mi sentivo morire e tutte le volte che cercavo di aprire la bocca quel maledetto torceva, torceva. Nunziata dall’altra parte con voce soffocata mi chiamava: “Domenicoooo! ... Aiutami! ... Madonna mia pensaci tu.”. Anche io nel mio intimo invocavo la Madonna del Carmine che a distanza di qualche mese si sarebbe festeggiata per le vie del nostro paese. Ma quale aiuto mi potevo aspettare? Quel grandissimo figlio di “Puta” (5) continuava a inarcare il braccio obbligandomi a rimanere immobile e piegato sul fianco. Fu in quel momento che mi passò un lampo per la mente, mi rammentai del coltello che avevo ancora nella tasca della giacca e che incredibilmente mi penzolava a pochi centimetri dell’altro braccio che avevo libero. Non lo so! ... Non lo so come ho fatto. Forse veramente la Santa ha voluto aiutarmi. È stato un attimo! ... Impugnai il coltello e accecato dalla rabbia, incurante del braccio che scricchiolava, glielo infilzai nel fianco. Quel “pedazo de mierda” (6) mollò la presa e con una smorfia di sbigottimento e di dolore cercava di tastarsi la ferita. Non gli diedi scampo: gli crivellai la pancia con altri fendenti fino a quando non lo vidi piegarsi lentamente sulle ginocchia con le pupille fuori dalle orbite. Stavo per sferrargli altri colpi sulla schiena ma mi fermai. Capii che ormai non mi avrebbe dato più fastidio. Gli diedi una spinta e lui andò a cadere all’indietro con una smorfia di dolore. L’altro grandissimo figlio di “puta” non si accorse di nulla perché era intento ad immobilizzare Nunziata. Mi posizionai dietro la sua schiena e aspettai un attimo che spostasse il braccio. Nel preciso istante che lo mosse il coltello gli penetrò tutto sotto l’ascella. Quel maledetto balzò in piedi di scatto con un urlo animalesco, mi afferrò per il collo tirandomi a sé. Ma è stata la sua ultima mossa. La lama lunga circa dodici centimetri gli penetrava ... Dio mio! ... Ancora oggi mi sento accapponare la pelle. Quando lo vidi piegarsi da un lato lo spinsi all’indietro e con un balzo mi piegai sopra Nunziata per scoprirle la testa che nascosta sotto i suoi indumenti non capivo da che parte fosse. Dovetti fare molta attenzione perché aveva la veste rovesciata dietro la nuca ed i ferretti delle trecce si erano impigliati nella cimosa della sottana. Non si rese subito conto che ero io che cercavo di rimetterla in piedi per cui scalciava e graffiava come una belva ferita. L’ho aiutata ad alzarsi utilizzando il solo braccio destro, l’altro purtroppo non riuscivo a muoverlo. Quando finalmente si capacitò e si rese conto che di fronte c’ero io, mi buttò le braccia al collo piangendo a dirotto. La pregai di andare via di corsa affrettandola in avanti verso la strada che raggiungemmo con una certa difficoltà. A gambe levate ci avviammo nella direzione del porto. Eravamo ormai lontano da quel posto maledetto, quando ella asciugandosi il sudore per lo sforzo profuso mi chiese: “Ma quei due delinquenti che fine hanno fatto? Perché di colpo ci hanno lasciati andare?”. Io sforzandomi di sorridere anche per addolcire la tensione del momento, replicai: “Due calci per uno e li ho messi a dormire come bambini. E che ti credevi che mi facevo mettere i piedi sul collo da quei due pelandroni? ... Mi raccomando non facciamo parola mai con nessuno di quanto c’è successo per non avere grane successive. Capito? ... Adesso calmiamoci e senza dare nell’occhio cerchiamo una fontanella per darci una sciacquata ed una aggiustatina.”. Nunziata mi guardava con uno sguardo incredulo e abbozzando una smorfia forzata mi rispose: “Non posso crederci che li hai messi a posto con due calci per uno, ma se fosse vero quanto mi stai dicendo il merito va tutto alla Madonna del Carmine che ci ha voluto aiutare! Senza il suo aiuto tu come avresti potuto competere con quei due giganti? Non posso crederci!”. A passo svelto raggiungemmo la moltitudine di gente che aspettava di salire a bordo sprigionando un baccano d’inferno. Mentre ci muovevamo lentamente mi resi conto che per terra c’erano dei tombini con delle sbarre di ferro che servivano come caditoie dell’acqua piovana. Io avevo ancora addosso il coltello che inavvertitamente mi ero messo in tasca e che incredibilmente non presentava tracce di sangue, lo presi e facendo finta di allacciarmi una scarpa, utilizzando anche la bisaccia per nascondere il gesto, lo lasciai cadere sul fondo. Non posso negare che vivevo quei momenti nel terrore più assoluto. Mi sentivo il cuore esplodere nel petto. Sì! ... In quei minuti ho veramente tanto pregato la Madonna del Carmine che vegliasse su di me. Capivo perfettamente che si mi avessero scoperto la mia vita e quella di Nunziata sarebbe stata rovinata vita natural durante. Per poco non svenni quando vidi un uomo in divisa che si avvicinava verso di me, il sangue mi si bloccò nelle vene e le gambe incominciarono a tremarmi. Per fortuna non era un tutore dell’ordine, era un marinaio che ci avvertiva che le operazioni d’imbarco erano incominciate e ci sollecitava di fare presto. Salimmo! ... Il bastimento si mosse puntualmente alle 9,00 e mentre l’orchestrina posizionata sulla balconata esterna suonava “me ne voglì alla merica ca sta luntane assaje” io tirai un grosso sospiro di dolore e di sollievo, ringraziando in cuor mio la nostra bella Madonna di Limpidi. Soltanto qualche giorno dopo, mentre ci trovavamo in alto mare, non so per quale motivo Nunziata mentre mi aggiustava la fasciatura che mi bloccava il braccio al collo, (me lo avevano curato e ingessato in infermeria dove avevo dichiarato di essere scivolato sul pavimento bagnato) si rammentò del coltello e quasi con una punta di rimprovero mi fece capire che avremmo fatto bene a tenercelo. Io con noncuranza e facendo finta di guardare l’infinito orizzonte le risposi: “Non ti ricordi? L’ho buttato insieme alle bucce della frutta nella spazzatura, sei stata tu a dirmi che era pericoloso tenerlo in tasca e d’altronde non ci serviva più, ormai il suo dovere l’aveva fatto.”.
Mingo terminò il suo racconto asciugandosi gli occhi inumiditi dalla commozione.
Ciccio durante il racconto non aveva mai aperto bocca e tuttavia non desiderava parlare, aveva il timore anche di respirare. Quel silenzio che si era creato era opprimente e irreale. Per rompere quell’atmosfera glaciale, così, per dire qualcosa, commentò: “Si vede chiaramente che a distanza di tutti questi anni la ferita è ancora aperta e il vostro cuore sanguina dolore in un rimorso infinito.”. Smise però subito di parlare, si era reso conto di avere usato una parola, una dizione non appropriata e stava per correggersi, ma non ne ebbe il tempo. Mingo si era tirato su dalla sedia come se volesse alzarsi e lo fulminò con uno sguardo di fuoco: “Sì! ... Comparuccio! ... È vero! ... Nel mio cuore c’è una ferita che gronda sangue e dolore da oltre sessant’anni e non c’è giorno che il mio pensiero non corre a quella maledetta mattinata e a quei due disgraziati che non conosco i loro nomi, la loro stirpe e la fine che hanno fatto. Io voglio augurarmi che la Madonna del Carmine abbia fatto a loro il miracolo anche se io sono convinto che non ce l’hanno fatta. Quei due maiali hanno rovinato la loro e la mia esistenza. Sappiate però che in me non c’è alcun rimorso! ... Se quei due porci “hijos de puta” (7) li dovessi rincontrare li scannerei ancora altre mille volte.”.
(1) Domenico, Domenico ti voglio bene.
(2) Pure io, pure io Pedrito mio.
(3) Bracciante giornaliero
(4) Coltello a punta aguzza utilizzato a carnevale per uccidere i maiali
(5) Figlio di puttana
(6) Pezzo di merda
(7) Figli di puttana