Col termine vendemmia, si sa, si definisce la raccolta e la pigiatura dell'uva per farne mosto e poi vino, ma per arrivare a questo stadio, ci sono tante operazioni preliminari molto importanti per la buona riuscita del prodotto finale. Tralasciando i lavori della vigna, protratti e gestiti durante l'anno, l'autunno è finalmente tempo di raccolta.
Il fermento nelle vie, si notava già ai primi di settembre. S'incominciava a portare fuori le proprie botti per lavarle e se necessario imbonarle, cioè riempirle d'acqua per chiudere qualche fessura dovuta all'asciugatura del legno, se vuote da troppo tempo. Alcune avevano dei rimasugli di fecce e quindi non era raro sentire il caratteristico odore acidulo, sprigionarsi nell'aria. La maggior parte del lavoro si faceva in strada e dappertutto sbucavano rigagnoli d'acqua continua e fastidiosa, ma non se ne lamentava nessuno visto che era uso di tutti. Ogni uscio, per chi non aveva un cortile interno o un orto, in quel periodo, era adorno di botti di varie capacità che facevano bella mostra di sè, indicando ai vicini anche la quantità di vino che si sarebbe prodotto in quella casa.
Quando le botti, riempite per giorni di acqua fresca, non perdevano più, significava che erano pronte all'uso e si procedeva a lavarle per bene. L'usanza era bollire, sempre accanto agli usci, pentoloni di acqua con mazzetti di finocchio e mele selvatiche che avrebbero dato un odore caratteristico al legno. Avendole, si mettevano dentro anche delle vinacce per profumare ancor di più (vinazzàta).
Con le botti pronte in cantina, si poteva procedere alla vendemmia vera e propria.
Chi aveva la vigna, preparava tutto l'occorrente ed invitava parenti ed amici per farsi aiutare, ricambiando poi il disturbo a sua volta. Se necessario, ingaggiava anche persone estranee pagandole a giornata. Altri compravano l'uva dai tanti camion di venditori ambulanti che di solito si fermavano in piazza, portando grossi carichi dalla Sicilia e dalla Puglia.
Nella vigna, il lavoro iniziava presto. Si stabiliva chi dovesse tagliare i grappoli e chi trasportare (carrijiàre). Di solito le donne e i bambini raccoglievano, badando bene a scartare gli acini secchi o ammuffiti che avrebbero guastato il vino, e gli uomini trasportavano i grossi cesti, una volta, i sacchi di plastica, in seguito, molto più pratici e contenitivi del mosto, se non perdevano.Ultimamente si usano dei grossi secchi in plastica resistente, sicuramente molto più comodi. Quando le vigne erano grandi s'impiegava molto tempo, anche più giorni, e il trasporto si effettuava con trattori fino al palmento. Altri usavano i motocarri.
La vendemmia era una specie di festa. Metteva allegria perchè era anche un modo per ritrovarsi tutti insieme. Si cantava, si scambiavano consigli, si sapevano i fatti di paese. Di solito le vigne si trovavano vicino agli uliveti e non mancava mai un alberello di melograno (granàtu) e le rare giuggiole (zìnzuli) che avevano un sapore dolce soprattutto quando erano raggrinzite.
La proprietaria della vigna, preparava sempre qualcuno di questi frutti, insieme a qualche grappolo scelto e ne regalava un cesto da portare a casa a tutti gli aiutanti. Spogliati tutti i filari e separata l'uva bianca e l'eventuale l'uva fragola, si tornava a casa, al palmento. In realtà non tutti l'avevano in casa, ma chi ce l'aveva, lo prestava sempre volentieri. L'uva veniva scaricata nella grande vasca e gli uomini procedevano a pigiarla indossando un paio di stivali di plastica. Anche mio padre aiutava in questo lavoro. Lo chiamavano spesso ed io bambina lo seguivo ogni tanto, osservando ciò che avveniva. Era tutto un fremito: si scaricava, e si pigiava in fretta e già da subito si vedeva uscire il mosto fresco e dolce, tanto che era un pullulare di api e vespe golose tutt'intorno.
La prima cosa che si faceva, all'apparire del mosto, era prenderne un pò in un bicchiere e misurarne la gradazione di zucchero con un apposito termometro. Era importante saperlo perchè durante la cottura del mosto, si poteva o meno, aggiungere dello zucchero. Le donne, infatti, si adoperavano subito a mettere su, una grossa caldaia di rame, per fare il mosto cotto che avrebbe dato più profumo e consistenza al futuro vino. Il mosto si faceva bollire per molte ore fino a restingersi di almeno un terzo o anche la metà, schiumandolo spesso con un lungo mestolo (cucchjàra) di legno forato. Era allora che si spandeva per l'aria quel sapore dolciastro e caratteristico che invadeva le vie e i vicoli, diventando una caratteristica del periodo autunnale.
Gli uomini intanto continuavano il lavoro del palmento. Quando non usciva più mosto significava che era giunta l'ora del torchio. Con gli anni, il lavoro, a dire la verità si è molto semplificato perchè nessuno pigia più l'uva da quando sono comparse sul mercato le pigiatrici o sgrappatrici, prima a manovella, poi elettriche.
Strette nel torchio, le vinacce spemute a fondo dalla forza degli uomini, venivano poi allargate e disfatte con le mani (sgrappàti) per non perdere nemmeno una goccia del prezioso nettare. Capitava che si aggiungesse un pò d'acqua per farne un vinello leggero da consumare per primo. Questo lavoro era molto noioso anche perchè facendolo spesso al chiuso del palmento, di solito con poca aria, l'alcool dalle vinacce e l'anidride carbonica che si cominciava a sprigionare dal mosto, faceva girare la testa e bisognava uscire spesso a ritemprarsi all'aria. Chi non aveva il palmento in casa, anni fa usava dei piccoli barili per trasportare il mosto facendo più viaggi, anche sulla testa.
Quando il mosto era ben cotto, si metteva ancora caldo nelle botti e si chiudeva per fare in modo che tutto il legno s'impregnasse del buon profumo. L'indomani si metteva il mosto fresco che si lasciava così a fermentare. L'arte di fare il vino sa come fare per renderlo più "pastoso" o più leggero, più chiaro o più scuro. Tutto dipende dalla fermentazione dell'uva prima di spremerla o dall'aggiunta o meno di uva scura per il colore ambrato, rosato o brillante come l'oro. Finito tutto il procedimento non restava altro che sperare nella buona riuscita del vino. Un banale errore avrebbe provocato l'acidità del vino e per le grandi quantità non era certo auspicabile, anche se un pò d'aceto, in casa serviva e spesso si faceva anche apposta. Le botti, ben allineate nel basso di casa (catùaju) o cantine, rimanevano a fermentare per molti giorni sprigionando tutta l'anidride carbonica di cui era capace il mosto. Solo passando una candela sopra all'imboccatura e non spegnend! osi, significava che la fermentazione era finita e si poteva procedere con la chiusura.
Nei tempi antichi c'era una pianta che ricordo chiamavano "urmu" (non saprei quale pianta fosse anche se il nome fa pensare all'olmo...), che veniva schiacciata insieme a qualche acino fresco di uva e se ne ricavava una poltiglia appiccicosa usata per chiudere qualche fessura della botte e per sigillare poi il tappo di sughero e l'eventuale rubinetto. In seguito si usò la calce, ora c'è in commercio un apposito mastice pastoso come lo stucco che indurisce in poco tempo garantendo la sigillatura.
Come di consueto, ai primi di novembre o come detta il famoso proverbio, a San Martino, il mosto si presumeva fosse diventato ormai vino pronto per essere assaggiato. Capitava quindi che a turno ci si riunisse in famiglia a festeggiare (scialàta) con pane di casa, olive, formaggio e qualche "gruppu di salàmi", il vino novello, prima del lungo inverno in cui la stanchezza avrebbe avuto il sopravvento a causa dei duri lavori che incombevano.

Anna Maria Chiapparo