È Natale, nel mio paese lo annunciano le luminarie installate lungo le strade, ma senza che si respiri purtroppo quel clima gioioso tipico della festa più attesa dell’anno. Mi sembra che gli addobbi siano lì solamente per rendere le vie più illuminate, non per mantenere vivi i simboli della tradizione e creare la magica atmosfera natalizia di una volta, che il solo ricordarla mette tanta nostalgia.
Alcune persone sostengono che il Natale di oggi è ancora come quello dei tempi andati e dicono di me che ho idee non più al passo con i tempi e non accetto il cambiamento, la modernizzazione; che sono portato a considerare il presente insoddisfacente e negativo rispetto a un qualcosa che “c’è stato”. Si tratta di un’opinione che, anche se non generalizzata, mi ha indotto a immergermi in una riflessione e a domandarmi: “sono io che vivo ancorato a un mondo che non esiste più, che non riuscendo ad adattarmi al nuovo che avanza provo la nostalgia per il passato o sono talmente cambiate le cose da destare in me il rimpianto per ciò che è “vecchio”?”.
Per avere la risposta, ho ordinato le mie idee e mi sono concentrato con la memoria agli anni della mia gioventù, agli anni in cui nelle aree interne del sud Italia il progresso incominciava a fare capolino e il solo approssimarsi della festività bastava per mettere nelle famiglie la stessa ansietà che mette l’attesa per la nascita di un figlio; agli anni in cui l’arrivo di Natale era annunciato da antiche e belle tradizioni che facevano sognare grandi e piccini, aprivano il pensiero alla povera gente e portavano con sé tante emozioni, tanta dolcezza di sentimenti e tanta pace nei cuori da far diventare tutti più buoni e tolleranti.
Parlo del Natale di quando, seppur nella miseria, senza esitare e senza pretendere alcunché si correva tutti in soccorso a chi si trovava in situazione di pericolo o viveva e soffriva in solitudine nell’emarginazione; di quando si apriva la porta a chi desiderava riallacciare rapporti di amicizia interrotti e anche a chi voleva dare inizio a un nuovo rapporto affettivo.
Adesso viviamo in un’epoca caratterizzata dall’arroganza, dal sopruso e dall’aggressività, in cui ognuno ritiene che per conquistare una posizione di successo deve sopraffare senza nessun riguardo il proprio simile; in un’epoca nella quale predominano l’egoismo e il culto del dio denaro; in un’epoca in cui non c’è spazio per la solidarietà, un tempo considerata una sacra virtù.
Adesso, gran parte delle persone vive il periodo delle festività natalizie senza alcun tipo di entusiasmo e il giorno di Natale non lo riconosce più come un giorno speciale, bensì come una ricorrenza qualsiasi, da festeggiare mediante lo scambio di regali e perfino gozzovigliando con pranzi pantagruelici; lo vive non più per il suo effettivo valore, ma come l’occasione buona per dare incremento al commercio e fare aumentare il guadagno mediante l’esposizione della mercanzia nelle vetrine dei negozi, sfavillanti di luci colorate.
Troppe cose purtroppo si prestano a insinuare nell’animo della gente il dubbio atroce che Natale non esiste più come solenne festa cristiana, seconda soltanto alla Pasqua!
No, io non stravedo, vivo il tempo presente, sto attento a tutto ciò che accade e più passano i miei anni e più mi convinco che il Natale di oggi non è per nulla uguale a quello dei vecchi tempi.
Sono troppi i motivi che mi spingono a guardare indietro, a un tempo lontano, quando nelle case, nelle sere d’inverno, le famiglie solevano radunarsi intorno al focolare per ascoltare gli anziani che raccontavano i loro ricordi e bastava poco per essere felici.
Sono troppi i motivi che mi portano a dire amaramente: “Natale non c’è più, c’è stato un tempo!”.
Sono nato agli inizi degli anni Trenta in un piccolo borgo, allora densamente popolato, abitato in prevalenza da coppie con almeno tre o quattro figli, a volte più, quasi tutti dediti al lavoro dei campi; borgo che, a incominciare dalla fine della seconda guerra mondiale, si è andato progressivamente svuotando, di giovani e meno giovani, a causa dell’esodo verso le aree del nord Italia e anche dell’estero.
A questo paese di gente sobria e modesta, dove la coesistenza è stata sempre pacifica, improntata sul reciproco rispetto e sul rifiuto di ogni forma di odio e di violenza, io sono legato: parla dei miei anni infantili, di quelli giovanili e delle mie radici, è il luogo che ho scelto per mettere su casa, per viverci.
Prima dell’emigrazione, quando la popolazione residente aveva raggiunto il massimo storico, sebbene si vivesse in modo sobrio si facevano tutte le feste e le festicciole, che, tranne quella del carnevale, avevano un carattere religioso o erano volte a rafforzare l’amicizia; si osservavano molte usanze popolari che richiamavano alla memoria vecchie credenze, miti e tradizioni e, nel contempo, la cultura religiosa del popolo antico.
Lo ricordo esattamente com’era e come si viveva.
Non ho dimenticato le commoventi feste popolari religiose del 19 marzo in onore a San Giuseppe (cumbitu); le solenni processioni eucaristiche che nel mese di giugno si snodavano lungo le vie infiorate del paese per il Corpus Domini; i divertimenti che organizzava per noi bambini e la gran quantità di regali che ci portava l’allora giovane ufficiale della Guardia di Finanza Fortunato Minniti quando, tutti gli anni, nel mese di luglio ritornava nel suo paese natio per assistere alla festa della Madonna del Carmine, a cui era devoto; ma tra tutte le festività difficilmente dimenticherò quelle natalizie.
Se potessi esprimere un desiderio, vorrei tornare bambino, all’antico, per rivivere la magia di quei giorni, i rituali delle festività, i tanti piccoli momenti gioiosi, le belle tradizioni familiari e le semplici usanze, quando:
• non era raro svegliarsi la mattina e vedere la natura ammantata da una coltre di neve;
• non c’era la frenesia di comprare regali, perché da scambiarsi con gli amici bastavano i soli prodotti della terra;
• nelle case non c’era l’albero di Natale, ma il Presepe e di Babbo Natale non si parlava;
• fin dai primi di dicembre, tutte le mattine presto, tra il sonno e la veglia, si udiva la musica natalizia suonata con la zampogna e la ciaramella dagli zampognari, un suono dolce e malinconico che annunciava la novena dell’Immacolata e invitava all’attesa del Santo Natale, che, diffondendosi tra i vicoli, giungeva alle orecchie come una piacevole ninna nanna;
• durante il giorno, si vedevano girare per le vie i ragazzi e le ragazze che cantavano «allestitivi cari amici ca su juorni di Natali, oh chi fiesti e chi trionfali pe’ lu gloria Patri…», un invito, rivolto ai fedeli della comunità, a predisporsi con la mente e con l’animo per glorificare e manifestare la letizia, con processioni trionfali, per la nascita di Gesù Cristo;
• le serate si trascorrevano in famiglia e c’era chi amava ascoltare i racconti dei nonni e chi preferiva giocare a nocciole, “nuciji”, a carte napoletane, a dama o a tombola;
• l’usanza voleva che durante le festività, allo scopo di rinsaldare i legami affettivi e dell’amicizia, le famiglie si riunissero spesso con i parenti o con gli amici e trascorressero insieme la giornata, che si prestasse assistenza continua agli ammalati, ai poveri o a chi viveva nella solitudine;
• la sera della vigilia si dava fuoco ad un ceppo, “a ‘nu zuccu”, e lo si lasciava acceso tutta la notte sul focolare, come per riscaldare il Bambinello Gesù che stava per nascere;
• si mangiava tardi, in modo da stare svegli fino a mezzanotte e andare tutti in chiesa per assistere alle funzioni religiose, e la cena, nel pieno rispetto della tradizione, era composta da 13 cibi, tanti quanti sono stati gli apostoli insieme a Gesù (nel periodo della guerra, a causa della crisi alimentare, per giungere alla quantità di 13 si contavano anche la castagna, la noce, l’arancia e, se c’era di bisogno, anche le posate);
• si mangiava la tradizionale “pitta china” e anche le verdure dell’orto cotte, le patate e i peperoni soffritti, il baccalà fritto e le olive nere grosse essiccate, la frutta secca e le arance e non mancava il vino;
• giorno di Natale, si scambiavano gli auguri con chiunque, amico o nemico che fosse, senza distinzione di ceto o di classe sociale, e bastavano un sorriso e una stretta di mano per mettere fine a inimicizie e riallacciare rapporti amichevoli un tempo interrotti;
• a mezzogiorno si mangiavano le tagliatelle all’uovo fatte in casa, condite con il sugo della carne di coniglio, di capra o di pollo cotta nella conserva di pomodoro, e il pranzo aveva inizio solo dopo aver portato la pietanza al povero, all’ammalato e a chi viveva nella solitudine;
• si potevano rivivere momenti appartenenti a un mondo che non esiste più, momenti che, quando li racconto, suscitano la derisione di parecchia gente, al punto da dire in modo quasi sprezzante: “roba vecchia, stramberie di altri tempi che adesso, che il mondo è più razionale, non si concepiscono”.
No, non erano stramberie, ma usanze belle, usanze che al solo pensarle scaldano il cuore!
A Limpidi, la tradizione imponeva che l’allestimento del Presepe venisse iniziato fin dal primo giorno di dicembre.
In molte case, data l’esigua disponibilità di spazio, i proprietari sistemavano solo una capanna e dentro questa, su un prato di fresco muschio verde, ponevano le statuine della Madonna e di San Giuseppe e, su un pugno di paglia, quella del Bambinello scaldato dal bue e dall’asino.
In quelle più spaziose, attorno alla capanna ci mettevano ramoscelli di leccio, di corbezzolo (cacummarara, in dialetto locale) con i suoi bei frutti di colore rosso acceso o di altre piante con i frutti di stagione, come le arance. Sul prato, generalmente formato da muschio verde, disponevano con un cert’ordine i pastori che rappresentavano i mestieri più diffusi.
La sera, accanto al Presepe, si recitava il Rosario e si cantavano i canti natalizi.
Adesso, quelle care tradizioni le rivivo mentalmente; alla mia età mi nutro di passato non avendo più davanti nessun miraggio, nessun sogno e a ogni approssimarsi del Natale, se chiudo gli occhi, rivedo tante cose del tempo che fu.
Rivedo un Presepe esposto nella stanza di ingresso di una casa di gente umile e modesta: quella dell’abitazione di mio compare Peppino.
Era il Presepe che lui soleva creare tutti gli anni in un modo così ordinato, armoniosamente proporzionato e mai uguale al precedente, in cui si trovava sempre qualche cosa di particolarmente interessante.
Si differenziava dagli altri del paese per la moltitudine di componenti, rappresentati all’interno di uno scenario meditato, e per il significato, che andava oltre la rappresentazione simbolica della nascita del Redentore e la semplice riproduzione dei luoghi del paesaggio; le numerose statuine presenti, distribuite accuratamente e non a caso, davano l’impressione di essere sempre nuove e pareva si muovessero.
Da quel minuscolo finto Gesù, adagiato su un mucchietto di paglia nella grotta, si sprigionava incredibilmente un’atmosfera di pace e serenità che stimolava chiunque si avvicinasse a prostrarsi per adorarlo, che chiamava i fedeli della comunità a recarsi tutte le sere per recitare le preghiere e, come si faceva una volta, per cantare in coro gli inni a Lui dedicati.
Mio compare Peppino, nato da una famiglia con profonde radici cristiane, scevro da qualsiasi forma di protagonismo o ambizione di distinguersi tra i compaesani per ingegnosità, anno dopo anno, mosso da forte e pura devozione, lo personalizzava.
Voleva che il suo Presepe non fosse visto come il tradizionale ornamento necessario per rendere la casa semplicemente più accogliente, più calorosa e festosa; desiderava invece che, in quell’insieme di statuine posate accuratamente su un prato di fresco muschio verde i fedeli non vedessero soltanto il simbolo della più sentita e attesa festa religiosa dell’anno, ma anche che, contemplandolo, provassero la sensazione di trovarsi nei luoghi aspri e impervi dei Monti Sabini nel momento in cui il Santo d’Assisi rievocò la nascita del Salvatore.
Era proprio questo il motivo per cui nelle sue annuali composizioni, oltre ai luoghi e ai personaggi della tradizione, vi faceva comparire sempre la statuina di un frate.
Il lavoro certamente non era dei più facili, tuttavia egli lo affrontava con gioia, pur sapendo che per più giorni si sarebbe dovuto estraniare dal mondo che lo circondava per concentrarsi su ciò che desiderava fare.
Con la sua fantasia creativa, riusciva tutti gli anni a dar vita a un piccolo capolavoro di bellezza, espressione della fede religiosa popolare più pura tra quelle tramandate e più sentita dai credenti.
Con sorprendente talento, riusciva a far sì che esso possedesse la forza occulta di toccare l’emotività degli uomini e delle donne presenti, che li coinvolgesse al punto che, partendo dalla nascita di quel pargoletto ai tempi in cui regnò Erode a Betlemme, essi sentissero il bisogno interiore di riflettere sulla vita e sulla morte; che avesse una valenza comunicativa tale da diventare il tramite tra se stesso e le persone in quel momento assorte in silenziosa preghiera per potere condividere le emozioni che albergavano nascoste nel suo cuore.
Quel grande cuore, che mai indifferente alle sofferenze altrui, non dimenticava, in occasione della rievocazione del Santo Natale, di elevare con quel simbolo una invocazione al Creatore e chiedere aiuto per i poveri e gli oppressi; di rivolgere un pensiero deferente a coloro che diedero vita al piccolo insediamento rurale natio e a quanti, in prosieguo, sopportando sofferenza fisica e morale, sfidando l’ignoto e le forze avverse della natura lontano dagli affetti familiari, resero possibile alla progenie di crescere ed evolversi civilmente e socialmente.
Aveva un carattere solare! Era generoso mio compare Peppino, manifestava il suo amore verso il prossimo in ogni momento della vita, tanto da essere benvoluto da tutte le persone e la mamma, comare Michelina, che molto aveva tribolato per tirarlo su dall’adolescenza, era contenta di saperlo così virtuoso e timorato di Dio.
Con l’entusiasmo che gli era congeniale, fin dai primi giorni del mese di dicembre, quando già si percepiva in anticipo il clima festivo, tirava fuori gli accessori conservati il Natale precedente, da lui stesso formati e sapientemente dimensionati con stupefacente verosimiglianza utilizzando creta e cartone, per concretizzare il prodotto della sua fantasia.
Non mancava una bella collezione di statuine, tutte di piccola, media e grande statura, di singolare espressività, alcune opera dell’artigianato locale. La arricchiva annualmente.
Infatti, alla fiera dell’Immacolata di Dasà, comprava quelle che secondo lui mancavano e, quando non le reperiva, le foggiava da sé modellando una certa quantità di creta estratta da un piccolo giacimento che affiorava nella località denominata San Filippo, in modo da dare loro la forma desiderata, e le faceva poi essiccare lentamente vicino al fuoco.
Quando riteneva che tutto l’occorrente era a posto, dava il via alla realizzazione del suo progetto e non si risparmiava. Si concedeva brevi pause, limitando finanche il tempo per uscire fuori e intrattenersi con i compagni per il normale passatempo.
In chiesa però era sempre presente, insieme a noialtri, per servire la messa che il prete, nel rispetto delle consuetudini, celebrava all’alba subito dopo che gli zampognari, storici suonatori dei nostri monti, avevano fatto il giro per le vie del paese per svegliare, con il suono delle loro pive, tutti i fedeli e invitarli a recarsi ad assistere al sacro rito. Non mancava nemmeno, all’orario stabilito, per le funzioni vespertine della novena.
Quell’anno, mi pare fosse il 1942, a Limpidi si diffuse la voce che nel vicino paese di Dinami il parroco aveva esposto nella propria abitazione un Presepe strabiliante, da lui costruito, in cui tutto si muoveva, che attirava un flusso costante di visitatori; che sempre nello stesso luogo, un facoltoso signore, nella propria casa, ne aveva esposto in ammirazione un altro riccamente addobbato, il non plus ultra delle meraviglie.
In paese fummo spinti quasi tutti, anche don Falleti, dalla curiosità di andare a visitare quell’eccezionalità, tanto che nella mattinata gelida di una giornata compresa tra il venticinque e la fine di dicembre, in sua compagnia, in sette o otto coetanei ci incamminammo alla volta di quel centro.
Ivi giunti, dato che la propaganda messa preventivamente in atto aveva sortito l’effetto voluto, prima di poter varcare la soglia della casa del parroco ci siamo dovuti mettere in coda alla fila che si era già creata, sostando fuori intirizziti dal freddo; non solo, per poter guardare quel manufatto, che occupava abbondantemente i tre quarti della superficie del vano, fummo poi costretti ad entrare a gruppi di quattro per volta.
Il geniale artefice dell’opera, avvalendosi dell’energia elettrica, lo aveva meccanizzato, cosicché quasi tutti i personaggi, compresi il Bambinello, la Madonna e San Giuseppe, fatti in parte di legno, in parte con materiale ferroso ed in parte con creta, distribuiti confusamente su quell’enorme struttura malamente coperta da muschio, sabbia, rametti di leccio e roba varia senza nessun rispetto per l’estetica, si muovevano ritmicamente.
Lo conservo ancora perfettamente il ricordo di quella “stravaganza” e di ciò che provai vedendola: non c’era nulla di religioso.
La seconda meraviglia altro non rappresentava se non l’ostentazione dell’opulenza del costruttore, che suppongo dovesse essere il facoltoso signore di prima.
Il ricco addobbo di luminarie con la capanna sfolgorante e le statuine in porcellana oltre a una miriade di altri elementi facevano, è vero, rimanere a bocca aperta, ma in effetti nel loro insieme non rappresentavano altro se non un’irriguardosa vanteria di ricchezza.
Un’opulenza stridente con la condizione di indigenza nella quale si trovava la maggior parte della popolazione del mondo, conseguenza del nefasto conflitto mondiale che stava per concludersi lasciando ovunque cimiteri e macerie fumanti.
Descrivere a parole quanta e come è stata la delusione che provammo è oggi cosa assolutamente impossibile, basti dire che durante il ritorno don Falleti preferì distrarci parlando d’altro e dell’imminente festa dell’Epifania.
E il sei gennaio arrivò in un attimo!
Uno spesso manto di neve caduta nella nottata aveva coperto madre natura creando dei paesaggi fantastici.
C'era ancora la guerra e le funzioni religiose, a causa del coprifuoco imposto dalle autorità militari, si svolsero nelle ore antimeridiane in un clima di angoscia: mancavano purtroppo coloro che stavano combattendo sui fronti aperti, erano prigionieri o addirittura già morti, caduti chissà in quale sperduto posto.
Nonostante la situazione fosse così drammatica, come d’usanza, anche il pomeriggio di quel giorno don Falleti dovette percorrere le stradine acciottolate di Limpidi per recarsi nelle case in cui c’era un Presepe per l’annuale commemorazione del Battesimo di Gesù tra le famiglie.
Quando entrò in quella di mio compare Peppino, seguito da un nutrito gruppo di ragazzi infreddoliti, si stava facendo buio.
Nella stanza, riscaldata dal calore che mandavano i ceppi accesi sul focolare del camino, ad attenderlo, oltre a mio compare e ai suoi familiari, c’eravamo noi compagni d’infanzia assieme ai fedeli del vicinato, composti in religioso raccoglimento.
Comare Michelina, per l’occasione, aveva già predisposto, nonostante la miseria imperante, un vario e copioso rinfresco per festeggiare l’evento, del tutto uguale a quello che si svolgeva quando a Limpidi veniva battezzato un neonato.
Si trattava di cose semplici, che oggi farebbero un po’ ridere, ma che a quei tempi erano leccornie preparate con amore e privazioni da gente genuina, che esiste ormai solo nel ricordo che il tempo non potrà mai cancellare.
Il Presepe di quel Natale era lì nell’angolo di quella stanza e occupava uno spazio di circa due metri; sviluppato in altezza, dava all’osservatore la sensazione di trovarsi di fronte a un Presepe più ampio e più profondo di quanto non lo fosse realmente.
Da allora, molti anni sono passati, eppure ancora oggi riesco a fare una descrizione, benché sommaria, di come si mostrava.
Mio compare Peppino non aveva allestito il tradizionale Presepe, ma qualcosa di originale.
Immaginando fossero quelli i luoghi dov’è nato Gesù, aveva riprodotto fedelmente l’immagine plastica del territorio che comprende il borgo natio e quella porzione di terreno agricolo bagnato per secoli dal sudore della sua gente, dominato da una fascia montuosa (fascia boscosa esistente che può raggiungere la quota massima di 600 metri sul livello del mare) e da una montagnola sulla cui sommità spiccavano le tre croci del monte Calvario (di cui esistono solo i resti).
Guardandolo, sembrava di avere davanti agli occhi la fotografia in grande formato del paesaggio autentico.
In primo piano, si osservava la vallata del fiume “Filese”, in cui risaltavano i terreni colti, le “angre”, lambiti dalle sue acque; le ripide pendici collinari; le modeste estensioni rappresentate da un susseguirsi di piccoli spazi pianeggianti e da altri in declivio, come le campagne di uliveti e vigneti di Limpidi; le collinette e le zone solcate da ruscelli.
In secondo piano, l’abitato, formato da tutta una serie di minuscole casette, addossate le une alle altre, la chiesetta, il piccolo cimitero, il ponte sul fiume; sullo sfondo, la fascia montuosa e la montagnola con le tre croci.
L’elemento centrale, il più importante, non era la capanna, ma una grotta: l’aveva situata nel ventre della montagnola che rappresentava il monte Calvario, precisamente al piede, dove si erge e ha tuttora inizio la stradina ripida, denominata “strada del Calvario”, che prosegue fino a raggiungere la zona delle radure montane.
Richiamava l’immagine di quella cavità naturale dei monti Sabini del borgo di Greccio e, sormontata com’era dalle tre croci del Calvario, del Monte Golgota.
Don Giuseppe Falleti, in rispettoso silenzio, osservava quell’opera eseguita con particolare accuratezza.
Scrutava l’interno della grotta sovrastata dalle tre croci, in cui c’era una statuina mai vista prima in un Presepe, una riproduzione del Santo d’Assisi inginocchiato di fronte al Bambinello con le braccia protese, come se volesse abbracciarlo.
Ma il suo sguardo si soffermava su quelle raggruppate davanti ed era sorpreso di non vederne alcune. Infatti, insieme a molte altre, non c’erano quelle dei tre saggi e ricchi Re che, partiti dal lontano oriente, seguendo la stella cometa, erano giunti a Betlemme per omaggiare Gesù con ricchi doni.
Mancavano perché mio compare Peppino, per adorare il Re nato povero, di proposito aveva scelto di mettere le statuine raffiguranti le umili contadine e gli umili contadini, che in dono potevano portare solo i poveri frutti che la terra offriva loro.
Quel Presepe così disadorno, senza addobbi, lo ricordo, ce l’ho ancora scolpito nella mia memoria: parlava al cuore della gente!
Raccontava l’amore di Dio, che aveva scelto di farsi uomo in quell’antro buio e umido per stare in mezzo ai poveri, e invitava chiunque lo contemplasse a riflettere sulla fugacità della vita, nonché sull’ineluttabilità della morte.
Parlava della sua terra, della ricchezza, della povertà e dell’umiltà francescana.
Era il frutto dell’idea geniale di un giovinetto virtuoso e timorato di Dio, di mio compare Peppino, che l’evolversi vertiginoso degli eventi, la volontà di acquisire e vivere nuove conoscenze, il bisogno di raggiungere una qualità di vita migliore e maggiormente gratificante hanno poi portato in luoghi ospitali, ma molto lontani dal borgo natio.
Ci sono persone che se le amiamo non muoiono mai, vivono dentro di noi!
Sono quelle con le quali abbiamo vissuto una parte significativa della nostra esistenza, percorso assieme un tratto della stessa strada e condiviso momenti sia lieti che tristi.
Sono i veri amici, che entrano nella mente e nell’animo nostro in punta di piedi, che una volta dentro occupano stabilmente un posto e che quando fisicamente se ne vanno, per un disegno del destino, lasciano la loro impronta, un segno indelebile nei ricordi.
Sono quei lievi soffi di brezza estiva rigenerante che noi avvertiamo ogniqualvolta lo sconforto ci assale e ci opprime, che dolcemente ci ristorano e riescono a placare la nostra sofferenza ricordandoci un tempo che purtroppo non tornerà più.
Limpidi, 14 Dicembre 2021
La raccolta delle olive, ancor prima che inventassero le reti, era un lavoro molto faticoso che si protraeva per tutto l'inverno e talvolta anche oltre. Si attendeva che le olive cadessero spontaneamente o per un evento atmosferico; raramente le piante venivano abbacchiate. Tutto il peso di questo defatigante sforzo fisico gravava sulle donne: uscivano da casa all'alba coperte alla meglio per ripararsi dalle intemperie dell’inverno e percorrevano chilometri a piedi prima di raggiungere gli uliveti. Lavoravano senza sosta, anche dieci ore, a seconda della quantità di olive da raccogliere. Eppure, l'enorme sforzo che compivano non impediva loro di essere allegre. Lavorando, cantavano con voce chiara e squillante gli stornelli di una volta e gli echi, provenienti dalle località dove erano situati gli uliveti, le contrade "Aricejia", "Magghjia", "Chiana di lu mulinu" etc., riempivano di armonia le valli e arrivavano fino in paese.
Esse iniziavano verso la fine d'ottobre quando cadevano le prime olive (olive della "rimunda"), che in verità erano di scarsa resa, e continuavano ininterrottamente per tutto l'inverno: talvolta, se si trattava di annata promettente ("carica"), anche fino in primavera.
Le olive, raccolte a mani nude sul terreno bagnato, di rado asciutto, senza tralasciare un solo acino, le mettevano in sacchi o in ceste o nei "ruvaci" che, a fine giornata, dopo aver trascorso ore ed ore sempre chinate a terra, loro stesse erano costrette a trasportare sulla testa. Giunte in paese, il raccolto veniva depositato in un locale dell'abitazione, per chi lo aveva disponibile, oppure nei frantoi all'interno dei "zimbuni", ossia delle vasche riservate ai clienti fissi per la successiva lavorazione.
Anche questo era un duro lavoro, non privo di difficoltà e rischi, che a fine giornata dovevano svolgere. Infatti, l'assenza quasi assoluta di una rete viaria interpoderale idonea le obbligava a percorrere spesso, con quel peso sulla testa, sentieri stretti e per di più con forti pendenze. Qui, addirittura, era possibile mettere solo un piede dietro l'altro e un passo falso sarebbe stato per loro causa di danni gravi.
Prima che facessero la comparsa i sacchi di plastica, maggiormente usati in quanto più economici e inoltre più duraturi, c'erano quelli di fibra vegetale, fatti con tessuti di canapa, capaci di contenere fino a 20 o 25 kg di olive e oltre. Le donne trovavano che, pieni del prodotto, per loro era meno faticoso portarli sulla testa dal punto di raccolta a quello di scarico: li preferivano ai tradizionali "ruvaci".
Ubaldo Doré
Era un inoffensivo batuffolino di cotone, un cagnolino di piccola taglia, che più che abbaiare sembrava emettesse sospiri. Volevo mi stesse vicino quando dovevo mangiare e anche prima di andare a dormire.
Mi par di rivederlo quando, con il pelo bianco, bello e pettinato, veniva tutte le mattine a consumare la parte della mia colazione che immancabilmente gli riservavo. Lo rivedo anche nel momento in cui, dimenando la piccola coda, mi guardava con quel suo modo curioso come se fosse in attesa di ricevere qualche mia parola e quando, allo stesso modo di un gattino, si strofinava alle mie gambe come se volesse farmi le carezze.
Ma quel gelido mattino il mio “Birrì” non venne a mangiare la sua “colazione”; non era mai successo prima e, pur essendo ancora in età infantile, immaginai che qualcosa di grave potesse essergli accaduto.
Ne ebbi la conferma più tardi quando vennero a darmi la brutta notizia mio fratello, le mie sorelle e mia nonna, tutti molto turbati in volto.
E qui purtroppo arriva la parte più triste della storia, quella crudele che mi è rimasta impressa nella memoria, quella raccontata da mia nonna per farmi sapere che il mio piccolo “Birrì” non lo avrei più rivisto, che aveva fatto una fine orrenda.
Quando mi tornano alla mente le parole pronunciate in quel momento con un tono di voce commosso e l’atteggiamento particolarmente affettuoso, provo ancora come una sensazione di sofferenza.
Dopo aver poggiato carezzevolmente sulla mia testa una mano, nonna cercò di nascondermi la spaventosa realtà con una pietosa bugia. Ma poi, abbracciandomi e stringendomi a sé, non poté fare a meno di rivelarmi l’amara verità. Con tutta la tenerezza possibile, tralasciate volutamente molte parti, mi disse: “nella nottata abbiamo udito laceranti guaiti e questa mattina abbiamo visto sparsi nella via i suoi resti, pochi miseri brandelli di carne”.
Era stato un lupo l'autore di tale scempio; un lupo che certamente durante la notte, dopo avere tentato inutilmente l’assalto agli ovili, si era avvicinato alla mia abitazione per soddisfare i suoi famelici istinti.
È stato qui che il mio “coraggioso Birrì”, che dormiva nella sua cuccia di tavole posta sotto il balcone - “mignanu” - avrà tentato di opporre resistenza trovando la morte.
Ubaldo Doré
Il suo arrivo a Limpidi veniva annunciato dal banditore, che la mattina, di buon’ora, gridava a squarciagola: “arrivau lu crastaturi”, è arrivato il castratore.
“Lu crastaturi”, una persona di corporatura tozza e spalle da boscaiolo che esercitava abusivamente la professione propria del veterinario, era un montanaro delle Serre Calabre sulla quarantina. Tutti gli anni, durante certi periodi, egli veniva nei nostri paesi e, dietro compenso, basandosi soltanto sull’esperienza pratica, si impegnava ad asportare gli organi genitali dei suini al fine di privarli della facoltà di procreare.
Da quello che ricordo, questo “personaggio” girava di paese in paese sempre a piedi con sulle spalle un vecchio zaino che conteneva i “ferri del mestiere”: un paio di affilatissimi coltelli, una pietra per affilarli, un grosso ago da materassaio con lo spago infilato nella cruna e un barattolo di unguento che emanava un cattivo odore.
Asportare i testicoli ai maiali, quando erano molto giovani, era una operazione che gli riusciva quasi sempre, ma quando doveva togliere le ovaie alle femmine, per cui era richiesta la conoscenza specialistica nel campo della chirurgia, non sempre andava tutto a buon fine perché l’animale dopo alcuni giorni moriva.
I testicoli dei maialetti castrati, per certe persone, cotti, erano un boccone prelibato.
Di norma, alla castrazione venivano sottoposti quei maialini destinati all’uccisione durante il periodo di carnevale, principalmente per favorire un accrescimento e un ingrasso più rapidi e per ottenere carni più delicate.
Così come veniva compiuta, non era uno spettacolo bello da vedere, suscitava raccapriccio.
La brutale mutilazione veniva fatta, senza alcuna forma di anestesia, nelle vie pubbliche, a contatto con le deiezioni solide e liquide che, miste al sangue animale, sprigionavano un fetore che ammorbava l’aria. Quasi sempre, le grida atroci di dolore e spavento delle povere bestie si mischiavano agli schiamazzi di una piccola folla di ragazzi.
Un’altra visione ripugnante era quella dei cani randagi che si contendevano le ovaie sanguinanti e si chinavano a leccare il sangue sparso per terra.
L’operazione non durava in tutto che cinque o sei minuti per ogni castrazione e ad assistere il castratore c’erano sempre due contadini locali, che venivano ripagati con più di un boccale di vino. Essi avevano il compito di afferrare subito l’animale da castrare, che si dimenava e strepitava, tenerlo ben fermo per le zampe o sdraiarlo a pancia all’aria.
Ubaldo Doré
Al centro della Calabria, nell'entroterra, a ridosso dell'Appennino sotto le Serre, incastonato tra il massiccio della Sila a Nord e l'Aspromonte a Sud, si trova Acquaro, un paese, a suo tempo, prettamente agricolo.
Come tutti i paesi del Sud, nei primi anni '60, è stato letteralmente svuotato da una emorragia umana diretta verso il Nord dell'Italia, verso il Centro-Nord dell'Europa quando non addirittura verso destinazioni oltreoceaniche: Australia e Americhe.
Si emigrava verso il benessere, per vincere la battaglia della sopravvivenza, per un bisogno inappagato di cibo, di casa, di lavoro, di sicurezza per la famiglia e di istruzione per i figli, ostacolando così il gorgo oscuro della miseria e dell'emarginazione.
Andavano via le forze giovani e restavano gli anziani, le donne ed i bambini che a volte, successivamente, partivano anch'essi, per ricongiungersi "in terre assai lontane".
Quanti amici d'infanzia si vedevano partire!
Gli anziani che restavano accettavano molto a malincuore le partenze, ma … qualsiasi cosa per il futuro dei figli!
Intense erano le corrispondenze.
'A littara era alla base della comunicazione con il mondo intero e con la famiglia in particolare.
Tutto era a "lei" affidato e scriverla aveva il sapore di un antico rito!
Ci si "predisponeva" alla sua scrittura con pensieri, emozioni, sensazioni e significati che si mobilitavano assai prima di scriverla, non senza una certa riluttanza e legittimata pigrizia a farlo. "Nu juarnu 'i chisti, aju 'u 'nci scrivu 'a littara!" [Uno di questi giorni, gli debbo scrivere la lettera] si diceva!
Il foglio rigato e la busta, comprate per poche lire, prese in mano, ti facevano già entrare in una "dimensione comunicativa".
S'iniziava diligentemente con una scrittura attenta, puntigliosa, il più possibile precisa, spesso anche faticosa data la scarsa dimestichezza con il singolare compito.
Mano a mano che si procedeva, la precisione ed il puntiglio lasciavano però sempre più spazio ad impuntature di penna. Le doppie - dd, mm, nn, rr, tt, ecc - diventavano ... singole. Si risparmiava sugli accenti e sugli apostrofi. Gli spazi tra una parola e l'altra si dilatavano. La riga di scrittura inevitabilmente … tendeva a scendere. La punteggiatura … ad capocchiam! I margini … 'affafuttere ...! [a quel paese]
Insomma, se una di queste lettere fosse oggi esposta ad una Biennale d'Arte, ben sintetizzerebbe il faticoso percorso di "allitterazione popolare" sotto forma d'Arte Grafica.
Nello scriverla, ognuno aveva le sue caratteristiche espressive.
La formula iniziale, in genere, era ben collaudata e si ripeteva sempre uguale in tutte le lettere, quasi a voler essere rassicuranti.
"Vengo a te con questa mia" era la forma, forse, più usata, quasi una prosecuzione spazio-temporale di sé stessi per poter raggiungere "fisicamente" l'altro.
"Ti sono scritto questa lettera" era uno degli incipit più impegnativi!
Si cercava con questa semplicità espressiva ed eleganza "formale", di tener testa a vecchi retaggi vessatori.
L'augurio era sempre che "questa mia" trovasse il destinatario in buona salute, in modo da scongiurare subito situazioni spiacevoli. Successivamente si comunicava il proprio stato di salute per rassicurare le presunte ansie!
In questa fase Dio, la Madonna ed i Santi erano testimoni oculari di tutto ciò che succedeva. Queste costanti e benefiche presenze evocative di popolare religiosità per la salute, per il destino, per la fortuna e per tutte le scelte da effettuare erano molto considerate e, con il loro "perenne" aiuto si andava avanti "sempre e comunque".
Uno spazio importante da' littara era dedicato al lavoro.
Il "sentimento" e l'"attaccamento" che si aveva per il lavoro si manifestava anche nello scriverne. Faceva parte, per così dire, di "una vitalità etica" che si evidenziava sempre ed in vari modi.
Le espressioni scritte al riguardo, assumevano, a volte, la consistenza di un'eredità testamentaria da tramandare alle generazioni future!
Espressioni pensate in dialetto e trascritte in auliche forme, stilisticamente italianizzate, procuravano, alla lettura, un ironico e benefico sorriso, pur inducendo, poi, a ben ponderate riflessioni!
"'U lavuru è 'u futuru". "Di lavuru no' 'ndave mai abbastanza". "Sappiti sempe misurare cu' lavuru". "Fancillu vidire chiju chi sai fare …". "Cu' 'a vucca tutti maestri". Erano alcune delle considerazioni di partenza che, trascritte, diventavano moniti e raccomandazioni: "Per il tuo futuro este bene che penzi sempe al tuo lavoro"; "Il lavoro no ti deve mai mancare, pigglialo sempe"; "Il lavoro no deve essere mai poco e mai tantu, lo devi misurare bene"; "Fanci vedere quello che sai fare a tutti chissi maestri"; "No ti vantare mai, si lavura con li mani e no con la bocca".
Nella "littara" trasparivano anche velature romantiche.
Alcune: "Mio amatissimo Sposo"; "Mia amatissima Sposa" - sempre con la S maiuscola! -; "Ti stringo forte al cuore"; "Da quando sei partito il mio cuore si è incupito"; "Abbracciandoti ti porgo tutte le mie sembianze".
Queste espressioni, spesso, s'ispiravano alla complicità vissuta nell'intimità ed alcune, anche, a testi musical-popolari del tempo ed avevano il sottinteso intento di alimentare la fiamma amorosa. La formale risultanza scritta, doveva però essere, per pudìco principio, silenziata anche se, a volte, qualcosa sfuggiva!
Mano a mano che il tempo passava, le allusioni amorose avevano anche il compito di allontanare incomprensioni e maldicerie. "Ricordati sempe che sono la tua cara Sposa e sono sempe qua ad aspettarti".
Insomma, ogni lettera accoglieva un pezzo di vita.
Ogni cosa si rifletteva dentro.
Quante espressioni rappresentavano, ad esempio, la salute ...
"Sono preoccupata per Pepparello, ave da una settimana la febbre e non passa"; "Sappi che la mia cara matre e più di là che di qua, anche il medico a ordinato pane bianco".
Così pure la crescita dei figli: "Pepparello non vuole andare alla scola, e sempre in mezzo alla strata"; "Rosinella cresce pulita pulita" [bella, graziosa e sana].
Si potrebbe continuare all'infinito …. Del resto basta che ognuno prenda una "sua" vecchia lettera, e ……… voilà …… parte la pellicola! Ci si immerge immediatamente in una sorta di sospensione estatica con infinite sfaccettature: si ammira la grafia - e solo per questa si potrebbe aprire un'enciclopedia -, si osserva il colore e le caratteristiche della carta ....
E infine loro, le parole scritte, che oltre ad essere lette, sono "osservate"; ci si "affaccia sopra" come se si stesse "supa 'o mignanu" [affacciati al balcone], si guarda la loro comparsa, … dove vanno a finire, … in compagnia di quali altre, … sparite, … altre ne arrivano ….
Come in un film, lo scorrere dei segni della scrittura proiettano, in sincronia, sul "proprio schermo": … una immagine sfuocata, … un luminoso sguardo, … un volto nitido, … un ricordo sbiadito, … un nostalgico ritornello, ….
La littara che segue, è una "libera" ricostruzione di una delle tante che, da ragazzino, scrivevo per conto di una coppia di anziani analfabeti. Consuetudine voleva che ognuno di noi, a richiesta, non si sottraesse a questo "compito"; anzi …! Essere stato scelto per …. "nobilitava" la dignità del proprio percorso di apprendimento scolastico e metterlo al servizio di … era un modo per rendersi orgogliosamente utili.
E' difficile per me descrivere le emozioni che provavo in qualità di "scrivano". Per tutto il tempo necessario vivevo una sorta di sospensione temporale, come se entrassi in uno spazio scenico di "fiabica magia". Già tutto iniziava dalla risposta al mio bussare alla porta:
- Ahh …! Siti vui!
Questo maestoso Vui, dato ad un ragazzino di 10 anni, Compare Bruno lo giustificava così:
- Quandu veniti pa' littara, vui siti 'u maestru!
Alle mie parole di schermo:
- Ma' quale maestru! … Io sugnu cotraru! [ragazzino]
Repentina la risposta - con voce tonante e dito ammonitore -:
- Ahh…! Chistu no' ncintra nente! 'U rispiattu no' guarda età!
Parole queste mai dimenticate!
Questa littara è "indirizzata" a tutti coloro che, vicini o lontani dai loro paesi di origine, vogliono continuare a "dialogare" con le proprie radici, soprattutto ora che sembra ci sia la "tendenza" a dimenticare "Come Eravamo". Auguro ad ognuno, nel leggere, di provare lo stesso piacere che io ho provato nello scrivere. "'U cunzigghiu" che mi permetto di dare, è quello di stampare "'A littara du' Cumparucciu Scrivanu" e leggerla in un momento di tranquillità, con la carta tra le dita, per favorire maggiormente il piacere della lettura.
Cumpare Brunu: - Allura … Cumparucciu, cuminciamu!
:- Cari figghi, venimu 'a vui cu' chista littara, sperandu Dio ca' stati tutti buani.
CARI FIGLI, VENIAMO A VOI CON QUESTA LETTERA, SPERANDO DIO CHE STIATE TUTTI BENE.
:- Nui no' 'ndi lamentamu, anche se 'a ntisa di vostra matre si 'nda' sta' jiandu du' tuttu!
NOI NON CI LAMENTIAMO, ANCHE SE L'UDITO DI VOSTRA MADRE SE NE STA ANDANDO COMPLETAMENTE!
:- Pe' quantu mi diciti da' casa, nui vi raccumandamu di no' fare diebita!
PER COME MI DITE DELLA CASA, NOI VI RACCOMANDIAMO DI NON FARE DEBITI!
: - Jamu avanti!
: - Tutti sti' cammari, pe' mò, no' vi servanu!
TUTTE QUESTE CAMERE, PER ADESSO, NON VI SERVONO.
: - Quandu pue aviti figghi, a Dio piaciendu, allura si 'nda parra!
QUANDO POI AVRETE DEI FIGLI, A DIO PIACENDO, ALLORA SI VEDRA'!
: - 'U cunzigghiu mio e di vostra matre este chiju di non jire 'a banca, pecchè 'a banca, si sa', t' a f f u c a !
IL CONSIGLIO MIO E DI VOSTRA MADRE E' QUELLO DI NON RIVOLGERSI ALLA BANCA, PERCHE' LA BANCA, SI SA', T I A F F O G A !
: - Rosa? … Tu chi dici? Diii … dii …!
Cummare Rosa: - Io ancora 'nci cunzigghiu di stare in cammara d'affittu … pecchè la Signora Giulietta este assai brava e puru lu' maritu!
VOSTRA MADRE VI CONSIGLIA DI STARE ANCORA IN CAMERA D'AFFITTO ANCHE PERCHE' LA SIGNORA GIULIETTA E' ASSAI BRAVA COME PURE IL MARITO!
Cumpare Brunu: - Rosa, mo' tu no' parrare, ca' parru io e … capisci a mia …
(… e mo' este miagghiu 'u 'nci'u' dicu … no' vorria ca' … chiji chi sa' chi penzanu …)
: - Da parti nostra, cuamu vui sapiti, avimu ancora diebita cu' Cumpare Cicciu po' fundu i Savucà, pagamme, pe' mo', sulu cincucientumilaliri, a parti du' Notaru.
DA PARTE NOSTRA, COME VOI SAPETE, ANCORA ABBIAMO DEBITI CON COMPARE CICCIO PER IL FONDO DI SAVUCA', ABBIAMO SOLO PAGATO CINQUECENTOMILALIRE OLTRE AL NOTAIO.
: - Quindi, pe' mo', no' vi potimu ajutare 'i nuja manera!
QUINDI PER ADESSO NON VI POSSIAMO AIUTARE IN NESSUN MODO.
: - Chist'annu non 'nci fù mancu 'a carrica d'olivi e l'uagghiu, vace puru mercatu!
QUEST'ANNO NON E' STATA UNA BUONA ANNATA PER LE OLIVE E PURE IL PREZZO DELL'OLIO E' MOLTO BASSO.
: - Po' prossimu annu, cu' saluti e cu' 'a grazia i Dio, i cuasi speriamu 'u si mentanu miagghiu!
PER IL NUOVO ANNO, SALUTE PERMETTENDO E CON LA GRAZIA DI DIO, SI SPERA CHE LE COSE ANDRANNO MEGLIO!
: - Allura sì che, fuarzi, vi potimu aiutare pa' casa!
ALLORA SI CHE, FORSE, VI POTREMO AIUTARE PER COMPRARE LA CASA
: - Capisci, figghiu mio, pecchè pe' mo' este miagghiu ca stati in affittu?
CAPISCI, FIGLIO MIO, PERCHE' PER ADESSO E' MEGLIO STARE IN AFFITTO?
: - Jamu ancora avanti Cumparucciu!
: - Cu lavuru … cuamu và cu' lavuru? Figghiu mio, fanci vidire tu, a' tutti 'ssi maestri chi 'ssi capaci i fare! E mi raccumandu …, fatti sempe ben volire du' capumastru!
COME VA CON IL LAVORO? FIGLIO MIO, FAI VEDERE A TUTTI CHE COSA SEI CAPACE DI FARE E MI RACCOMANDO, FATTI SEMPRE BEN VOLERE DAL CAPOMASTRO!
: - Tu oramai sai chi vole dire pane!
TU ORAMAI SAI CHE COSA VUOL DIRE PANE.
: - Si 'a fortuna ti vole …, tu però no' ti scordare mai da' purvarata i casa tua!
SPERIAMO CHE LA FORTUNA TI ASSISTA, TU PERO' NON TI SCORDARE MAI DELLA POLVERE CHE C'E' NELLA TUA CASA.
: - Rosa, chi dici?...
: - … 'a " mobilette"? … chi 'ncintra mo' a "mobilette"? … ahhh … capiscivi!
: - Vostra matre vi manda a dire di non jire 'o lavuru cù 'a "mobilette"
Io: - Cumpare Brunu, che cos'è 'a "mobilette"?
Cumpare Brunu: - Cumparucciu … mi meravigghiu di vui … 'a "mobilette" este … 'u motorinu!
Io: - Ahhh!
Cumpare Brunu: - Duve restamme … ahh … 'o lavuru cu' 'a "mobilette" … pecchè este viarnu … e juacu 'nce 'a nivi.
VOSTRA MADRE VI MANDA A DIRE DI NON ANDARE A LAVORARE CON IL MOTORINO …
(: - … no … no comparucciu, jaa' no' si chiama "motorino", si chiama "mobilette" …, scriviti "mobilette"!)
Cancello motorino e scrivo MOBILETTE, PERCHE' E' INVERNO E LI' C'E' LA NEVE.
: - A matina, vi azati priastu e jati 'u lavurati cu' tramvai.
LA MATTINA VI ALZATE PRESTO E ANDATE A LAVORARE CON IL TRAM.
: - Comparucciu, 'natra cosa avimu 'u scrivimu!
: - Cuamu tu, figghiu, mi scrivisti, puru pè chist'annu trovai cu' mi vinda 'na menzina i puarcu i dui cuintali, 'nu quartu l'unu, pe' sotizzi e suppressati, este 'nu bravu prunarisu, ma 'nda vole c i n q u a n t a m i l a l i r i ! E' caru … ma mi dinnu ca 'a carne este bona e sapurita!
COME TU, FIGLIO, MI HAI SCRITTO, PURE PER QUEST'ANNO HO TROVATO CHI MI VENDE META' MAIALE DI DUE QUINTALI, UN QUARTO CIASCUNO, PER LE SALSICCE E LE SOPPRESSATE, E' UNA BRAVA PERSONA
Io: - I duv'è chistu prunarisu?
Cumpare Brunu: - … di jà supa a Marzanu.
DI MARZANO, MA NE VUOLE BEN C I N Q U A T A M I L A L I R E ! E' CARO, MA MI DICONO CHE LA CARNE E' BUONA E SAPORITA!
: - Pè mia và buanu, fammi sapire pe' tia!
PER ME VA BENE, FAMMI SAPERE PER TE!
: - Rosa? … tu vua 'u nci dici ncù'natra cosa? … nente? ... sicuru? Và buanu!
: - Allura Cumparucciu ... cuamu urtima cosa 'nci mandu a dire ca' 'ccà si ficiaru i votaziuani, ma … 'u sindacu este sempe 'u stiassu!
COME ULTIMA COSA, SAPPIATE CHE QUI' SI SONO SVOLTE LE ELEZIONI, MA IL SINDACO E' SEMPRE LO STESSO.
: - No' n'avimu cchiù nente 'u vì dicimu, vi salutamu e vi mandamu sempe la Nostra Benedizziuani e 'a Madonna sempe 'u v'accumpagna!
: - Il vostro Caro Patre
: - La vostra Cara Matre
: - … e no' vi trascurati 'u rispunditi!
NON AVENDO PIU' NIENTE DA DIRVI, VI MANDIAMO SEMPRE LA NOSTRA BENEDIZIONE E CHE LA MADONNA SEMPRE VI ACCOMPAGNI.
IL VOSTRO CARO PADRE
LA VOSTRA CARA MADRE
E NON VI TRASCURATE NELLA RISPOSTA!
Alla fine della lettera era "concesso", anzi doveroso, mandare i saluti come "Cumparucciu Scrivano"
ANCH'IO, COMPARUCCIO SCRIVANO, VI MANDO CARI SALUTI!
…… saluti che bisognava leggere a compare Bruno e Commare Rosa, insieme a tutta la lettera, anche per sottolineare l'impegno profuso nello scriverla e … sperare sempre in una lauta ricompensa - anziché 10, 20 lire? -.
A volte io, fuori dettatura …, prima dei saluti, scrivevo:
E VI RACCOMANDO, QUANDO VI CAPITA, MANDATE SEMPRE LA CIOCCOLATA AL NOSTRO COMPARUCCIO SCRIVANO!
Senza, ovviamente …, rileggere lo scritto!
"'A ciuccculata" … a tempo debito, arrivava!
Tutto questo in genere avveniva in cucina, seduti intorno alla ruota del braciere, mentre Commare Rosa preparava la cena; io scrivevo "supa 'a tavuleja" [sopra una tavolozza] a cui era legata una biro con lo spago - tavolozza preparata con molta cura da Compare Bruno -, appoggiata sulle mie gambe a supporto del foglio, per favorire una Bella Scrittura!
Il foglio era poi diligentemente piegato ed imbustato. La busta, mittente e destinatario in Bella Calligrafia, religiosamente consegnata aperta nelle mani di Compare Bruno che la prendeva come fosse l'Ostia Consacrata.
Il compito di chiuderla, affrancarla ed imbucarla se lo prendeva Compare Bruno e spesso all'interno veniva riposta una immaginetta sacra di qualche Santo di recente festeggiamento (San Rocco, Santa Liberata, ecc.), senza non prima aver impresso il loro sigillo: una bella "mpataccata" d'unto!! Prima che la lettera si mettesse nella buca, ancora un rituale bacio e con la mano, a mo' di benedizione, il segno della croce sulla stessa; quella Croce che, Compare Bruno e Commare Rosa portavano sempre addosso: la lontananza!
Giovanni Luzzi
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