A te mia piccola, dolce grande donna.

 
 
 
 
Le tradizioni sono le radici, l’anima di un popolo.
Sono l’identità, il fluido vitale, la cultura, il presupposto della sua esistenza.
Un popolo senza tradizioni è solo un mucchio di cenere destinato a disperdersi al primo soffio impetuoso del vento.
 
 
 
 

Avevo otto anni quando anch’io presi parte, come figurante, al tradizionale Convito di San Giuseppe per simboleggiare Gesù.
Insieme a un uomo e una donna, due bisognosi del posto, nelle vesti di San Giuseppe e della Madonna, diedi vita alla rappresentazione, organizzata da una famiglia contadina nonostante la sua condizione fosse di grave disagio economico.
In quell’anno, non fu l’unica malgrado la miseria diffusa.
È un frammento della mia fanciullezza e il ricordo dell’evento è rimasto intatto nella mente e nel cuore.
Mi fa rivivere quella giornata nella quale, dopo avere assistito alla celebrazione della Santa Messa e fatto la comunione in una chiesa gremita di fedeli, mi recai, in anticipo di alcuni minuti, nell’umile dimora dove doveva avere luogo il rito.
Indossavo per l’occasione il migliore abito e mi accompagnavano mia madre, le mie sorelle, mia nonna e mia zia.
Pure loro, per la migliore riuscita della tradizionale commemorazione a carattere popolare e religioso, com’era usanza, non si erano risparmiate per aiutare comare Maria nell’insieme degli innumerevoli lavori preparatori, davvero stressanti, iniziando alcuni giorni prima di buon mattino.
Avevano trovato la soluzione al problema più importante: utilizzare i locali della mia casa per impastare a mano la farina e creare il quantitativo di maccheroni rapportato al numero presumibile delle pietanze da distribuire.
Questo prodotto casareccio, componente primario, avrebbe sostituito tutta la pasta di tipo industriale occorrente, a quei tempi difficile da trovare nei negozi locali perché non di largo consumo, oltre a essere considerato un bene di lusso precluso alla bocca dei poveri.
Un gruppetto di donne, insieme a loro, aveva selezionato e lavato i migliori broccoli di rape, predisposto in ammollo la giusta misura di ceci per la buona cottura e svolto ancora molti altri compiti.
In ogni circostanza, ieri come oggi, nei momenti del bisogno, la gente di Limpidi si è mostrata sempre solidale.
Per rievocare degnamente la festività del 19 marzo, tutti prestano la propria opera.
Le donne, in particolare, a gruppi, collaborano con tutte le famiglie vincolate dallo stesso voto di fede e tralasciano qualsiasi altra incombenza fino al disbrigo degli adempimenti basilari con sentimento di fraterna amicizia e devozione.
A Limpidi, a quei tempi, l’essere stato scelto, in mezzo a molti altri ragazzi, per ricoprire il ruolo di Gesù bambino costituiva un motivo di vanto.
Da mia madre e soprattutto da mia zia, come mi hanno molte volte ricordato scherzosamente dopo le mie sorelle, avevo ricevuto le necessarie istruzioni e raccomandazioni per non incorrere in qualche errore.
“Mantieni un atteggiamento serio e non guardare o girare lo sguardo continuamente a destra e sinistra. Non assaggiare la devozione senza aver fatto prima il segno della Santa Croce.
Devi fare bella figura anche perché lo dovranno sapere tuo padre e tuo fratello”.
Con tutte queste e ancora altre avvertenze probabilmente fui più in agitazione di quando ho dovuto sostenere gli esami per il conseguimento del diploma.
Mio padre era partito da poco per prendere servizio nell’ufficio postale di Asmara, capitale dell’Eritrea, la quale, insieme alla Libia, all’Etiopia e alla Somalia faceva parte dell’Africa orientale italiana.
Mio fratello, il più grande di noi quattro figli, si trovava a Vibo Valentia per frequentare una delle classi superiori dell’Istituto Magistrale.
Mi sentii investito di una enorme responsabilità.
Andai a dormire, ma con addosso la paura di non farcela passai la notte quasi insonne.
Quando da poco era spuntata l’alba, non riuscendo a stare ancora nel letto, mi rimisi in fretta il vestitino e, scarmigliato com’ero, senza far rumore, me ne andai fuori.
I miei, già da un bel pezzo in un altro locale, con il gruppetto di donne, assorbiti nel completamento dei preparativi, non avevano potuto accorgersi della mia assenza.
Quella mattina il cielo era terso e le rondini, da qualche giorno ritornate ai loro nidi, si rincorrevano gioiosamente.
Un’aria fresca e pungente colpì il mio corpo e mi fece rabbrividire.
Usciva dai tetti un fumo denso, dall’odore acre, e si diffondeva per l’aria sospinto da un leggero alito di vento.
Erano i diversi focolari sui quali la legna bruciava per l’inizio della fase finale inerente alla cottura dei cibi.
Tutto doveva essere pronto per mezzogiorno, orario in cui il parroco Don Giuseppe Falleti avrebbe fatto il giro per la benedizione.
Nelle viuzze e sulla strada centrale c’era già un gran viavai frettoloso e continuo di gente, prevalentemente donne, impegnata a portare recipienti pieni d’acqua, pentoloni e fasci di legna.
Per quanto guardassi attentamente non vidi ragazzi più piccoli o più grandi di me.
Incontrandomi, tutti mi guardavano con curiosità e sorridendo mi consigliavano di tornare a “riposare”.
Anche l’anno precedente era successo di dovermi svegliare prima del sorgere dell’aurora ma per motivi ben diversi.
E’ stato a luglio, mese in cui, a Dinami, la seconda domenica si festeggiava, e si festeggia, la Madonna della Catena.
Allora, era una pratica religiosa svolta sin dall’antichità, gruppi di fedeli partivano, il venerdì sera, a piedi, da località lontane, in pellegrinaggio devozionale, e viaggiavano tutta la notte, cantando inni sacri, per raggiungere il Santuario nelle prime luci del giorno seguente.
Anche da Limpidi, essendo il culto della Madonna della Catena molto sentito, come negli anni precedenti, il sabato, quando tutte le cose erano ancora immerse nel buio mattutino, un ben nutrito numero di persone, costituito da donne, uomini, ragazze e ragazzi, partì in alla volta di Dinami Insieme ai miei familiari c’ero anch’io.
Comare Michelina, madre di compare Peppino, mio coetaneo, affettuoso e sincero compagno di giochi, anche lei coadiuvante di comare Maria, veniva dalla fontana portando con le mani due brocche piene e sulla testa un recipiente di terracotta, anch’esso pieno.
Era una donna timorata di Dio comare Michelina che faticava e si sacrificava molto per allevare i due figli.
Affettuosa come sempre, vedendomi sulla strada, con i capelli arruffati, infreddolito, mezzo addormentato, notando il mio stato di ansietà si fermò e, com’era nel suo modo di fare, con un sorriso bonario e materno mi disse con voce suadente: “Ma comparuccio, perché così mattiniero? E’ troppo presto per il Convito, tornate a dormire, se la mamma si accorgerà della vostra assenza, si metterà in pensiero”.
Quelle parole furono come un’iniezione di tranquillità perché rientrai davvero e mi rimisi a letto.
A mezzogiorno, per fortuna, tutto andò per il meglio; tutto si svolse regolarmente. Non feci nessun errore, tanto da ricevere i complimenti sia dai miei come da comare Maria.
Oggi, dopo tanto tempo, è come se guardassi un vecchio film: rivedo le donne muoversi ordinatamente nella cameretta, con passo leggero e spedito, quasi felpato, così come ci si muove in una chiesa; vedo me, ragazzino, seduto a un tavolinetto addobbato con una tovaglia bianca, in mezzo ad un uomo anziano e a una giovane donna, con una ciotola di terracotta posata davanti, nell’atto di assaggiare il contenuto, consistente in un misto di broccoli di rape, maccheroni e ceci con l’aggiunta di una piccola porzione di pesce stocco.
Ero nel periodo della mia prima età, ma la commozione provata quel giorno non l’ho mai dimenticata; la rivivo ogni 19 di marzo.
E’ stata la prima esperienza dalla quale ho tratto degli insegnamenti.
Mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria il silenzio sceso quella mattina nella misera stanzetta, un silenzio solenne, quasi assoluto, rotto solamente da un debole brusio: le preghiere recitate dagli uomini e dalle donne, disposti in ginocchio, davanti a noi.
Più avanti con gli anni ho capito qual è il vero significato racchiuso nella manifestazione così spontanea, ma dal forte valore simbolico, che da secoli, coinvolge l’intera comunità di Limpidi.
Ho trovato la risposta ai tanti interrogativi sul perché dell’annuale festività popolare legata a San Giuseppe che non è una esibizione dal sapore folkloristico fine a se stessa, ma una testimonianza di fede, di religiosità, di culto verso la Sacra Famiglia: un‘espressione di amore, di altruismo e di fratellanza con l’umanità sofferente afflitta dalla miseria, dalla povertà, che non si conclude con i pochi atti compiuti prima, ma trova il suo momento più sublime nelle azioni successive.
La cosa più toccante di allora è consistita nella distribuzione dell’elemosina, frutto delle tante privazioni personali, alla quale anch’io dovetti partecipare a conclusione del rito.
Escludendo le tre porzioni, quelle già assaggiate, riservate per noi figuranti, tutto il rimanente fu ripartito, uno per uno, ai numerosi mendicanti accorsi da ogni dove.
Aspettavano il momento, con rassegnazione, stando seduti per terra ai bordi della strada provinciale, e anche dietro la chiesa, mentre gruppi di ragazzi e ragazze, nel frattempo, giravano per le vie dell’abitato portando ai poveri, agli ammalati e alle persone sole la devozione preparata dalle diverse famiglie.
Ho ancora negli occhi una visione straziante: i volti di quegli sventurati intrisi di mestizia i quali lasciavano chiaramente intendere quanto la sfortuna si fosse accanita contro di loro.
Alcuni costretti dalla poliomielite a trascinarsi per terra altri, con evidenti i segni della malaria, della tisi e di altre infermità, nell’atto di porgere il piccolo orciolo di creta, in attesa della “provvidenza”.
Odo ancora il loro “benedetto figlio” pronunciato con voce flebile, come ringraziamento, una volta ricevuto il misero pasto.
Gli avvenimenti della giornata, così intensa e ricca di emozioni, hanno lasciato in me un segno profondo.
Feci allora la mia prima piccola scoperta, una grande e inoppugnabile verità: l’umanità ha più bisogno di uomini buoni che di uomini grandi.
La sera mi coricai convinto di avere appreso e fatte cose buone e, con questa piacevole sensazione, dormii profondamente.
Piccola di statura, corporatura minuta, guance scavate dalla sofferenza e per le innumerevoli rinunce, mani rese callose dal duro lavoro contadino, con il capo canuto, sebbene ancora giovane, mi sembra di rivederla comare Maria.
Mi sembra di rivedere quel viso con il sorriso sulle labbra, con gli occhi lucidi e brillanti come due stelle, il viso di quella mamma sorretta da una grande fede in Dio che, divorata prematuramente dal supplizio di un male incurabile, riposa lassù, nel piccolo cimitero.
Alcuni anni fa due coniugi, provenienti da una città del nord Italia, hanno fatto sosta a Limpidi durante un viaggio verso la Sicilia.
Lui, limpidese di nascita, soleva venire tutti gli anni per una breve vacanza e lei, settentrionale, invece veniva per la prima volta.
Li ospitavano i parenti.
Era il 19 di marzo e, anche se quell’anno il numero delle famiglie era sensibilmente scemato per il triste fenomeno dell’emigrazione, come d’usanza, alcune avevano deciso di festeggiare la giornata organizzando il Convito di San Giuseppe.
Lui, ricordando l’antica tradizione, aveva un forte desiderio di assaporare un’altra volta quel miscuglio, formato in netta prevalenza dei prodotti della terra, mangiato, per ultimo, diversi anni indietro prima di lasciare, ancora giovane, il borgo natio.
Le migliorate condizioni economiche, con la scomparsa dei mendicanti, e l’ormai ridotto numero degli abitanti non comportavano più la distribuzione come nei tempi passati cosicché, poco dopo l’ora del desinare, analogamente agli anni precedenti, giovani donne e uomini, in giro, portarono a ciascuna famiglia, secondo il numero dei componenti, uno o più piatti della pietosa devozione.
Anche a questa, data la presenza dei nuovi commensali, portarono altre due abbondanti dosi.
Mangiarono tutti e quattro lo stesso genuino alimento e la donna settentrionale lo trovò talmente gradevole da preferirlo agli altri piatti tipici locali approntati per la circostanza.
Il pomeriggio, incontrandoci sulla strada, insieme con altri amici, decidemmo di fare una passeggiata e andare di là del ponte.
Era la prima bella e soleggiata giornata di marzo, davvero invitante: sembrava segnare la conclusione dell’inverno.
Appena fuori paese, lo scenario ricco di attrattive naturali, fece l’effetto di provocarle un susseguirsi di esclamazioni di meraviglia.
Volgendo lo sguardo a destra, rimase come ammaliata alla vista della ridente vallata del Mesima-Marepotamo, solcata dai fiumi omonimi, sotto il manto di una fitta e rigogliosa vegetazione, dall’andamento altimetrico ondulato, dolcemente degradante verso il mare di Nicotera.
Un’infinità di verde costituito da ampie distese di olivi e di altre piante che, in quell’istante, davano l’impressione di tingersi dei colori dell’iride, sotto l'effetto dei raggi del sole al tramonto: un fenomeno locale dovuto forse a motivi di rifrazione ottica in determinate ore del giorno e in determinate condizioni atmosferiche.
Le fu possibile osservare, in aggiunta, tutta la fascia costiera, oltre la quale c’è solo l’azzurro, comprendente uno squarcio del mare di Nicotera; il massiccio del Monte Poro; gli abitati delle città di Mileto e Vibo Valentia, disseminata da una infinità di piccoli borghi che, durante le sere di estate, quando si illuminano, regalano, a noi osservatori, uno spettacolo veramente fascinoso con le migliaia di luci tremule, simili a un brillio di lucciole, o di stelle nel firmamento.
Andammo avanti e, dopo la prima curva, seguirono altre espressioni di ammirazione.
Emise quasi un urlo quando apparve il monumentale viadotto in pietra, sul quale ci fermammo a lungo per darle il tempo, affacciandosi dal parapetto, di godere dello scenario naturale offerto dalle due catene montuose, interamente coperte da un fitto bosco, fronteggianti quasi a mo’ di sfida, che in forte pendio, scendono a valle fino a formare una stretta gola nella quale, tra i sassi, scorre sinuoso e spumeggiante il vecchio fiume.
Al ritorno, il sole era quasi tramontato, com’era prevedibile, la conversazione, per la maggior parte del tempo, fu incentrata sugli eventi del giorno.
A un certo punto lei, rivolgendosi a me, disse: “Sono veramente soddisfatta, non lo immaginavo, ma oggi, ho trascorso davvero una splendida giornata.
Ho contemplato dei luoghi ameni e, veri e incontaminati angoli svizzeri.
Per la prima volta, ho mangiato un boccone rustico, una vera ghiottoneria, realmente saporoso, migliore di come mi aveva anticipato mio marito, quando rientro, qualche volta, voglio gustarlo nuovamente a casa mia.
Tu sai come lo preparano?”
Risposi dopo qualche attimo di esitazione dicendo: “Non è per niente difficile, bisogna saper preparare un buon condimento!
La ricetta non prevede ingredienti eccezionali per quanto ne sappia.
E’ necessario mettere dentro i seguenti pochi concentrati di: fede, amore per il prossimo, carità come fine, amicizia schietta, sincerità, passione e sentimento.
Non sono però a conoscenza in quali dosi.
E’ un segreto custodito gelosamente nel cuore immenso delle piccole ma grandi donne di Limpidi.
A loro devi rivolgerti amica mia.
Non esistono altre creature in grado di infondergli e conferirgli quel profumo e quel sapore inconfondibile, unico!”
Il rito quest’anno si è ripetuto.
Le operose donne, superando notevoli difficoltà, non hanno voluto mancare all’appuntamento e Limpidi, per l’occasione, ha visto la presenza di numerose persone venute da fuori per assistere.
Anche i forestieri, come i pochi residenti, hanno fatto pranzo unicamente con la devozione di San Giuseppe.
Tutti hanno avvertito lo stesso profumo, lo stesso sapore.
In un mondo dove ormai sembrano regnare l’intolleranza, l’odio e la barbarie, c’è una sperduta piccola isola nella quale, caparbiamente, le tante piccole “comare Maria” non si rassegnano a vedere scomparire quei valori, che sono la quintessenza della vita umana, in mancanza dei quali c’è l’aridità: il deserto.
Esse continuano, tutti gli anni, imperterrite a combattere contro ogni forma di pregiudizio, per dimostrare che le parole solidarietà, fede e amore hanno ancora un senso e che la devozione di San Giuseppe emana sempre lo stesso profumo e ha ancora il sapore dei secoli passati.

Limpidi, 2 aprile 2015

Ubaldo Dore’

Pdf del ricordo "Diciannove di Marzo" di Ubaldo Dorè