
Il suo arrivo a Limpidi veniva annunciato dal banditore, che la mattina, di buon’ora, gridava a squarciagola: “arrivau lu crastaturi”, è arrivato il castratore.
“Lu crastaturi”, una persona di corporatura tozza e spalle da boscaiolo che esercitava abusivamente la professione propria del veterinario, era un montanaro delle Serre Calabre sulla quarantina. Tutti gli anni, durante certi periodi, egli veniva nei nostri paesi e, dietro compenso, basandosi soltanto sull’esperienza pratica, si impegnava ad asportare gli organi genitali dei suini al fine di privarli della facoltà di procreare.
Da quello che ricordo, questo “personaggio” girava di paese in paese sempre a piedi con sulle spalle un vecchio zaino che conteneva i “ferri del mestiere”: un paio di affilatissimi coltelli, una pietra per affilarli, un grosso ago da materassaio con lo spago infilato nella cruna e un barattolo di unguento che emanava un cattivo odore.
Asportare i testicoli ai maiali, quando erano molto giovani, era una operazione che gli riusciva quasi sempre, ma quando doveva togliere le ovaie alle femmine, per cui era richiesta la conoscenza specialistica nel campo della chirurgia, non sempre andava tutto a buon fine perché l’animale dopo alcuni giorni moriva.
I testicoli dei maialetti castrati, per certe persone, cotti, erano un boccone prelibato.
Di norma, alla castrazione venivano sottoposti quei maialini destinati all’uccisione durante il periodo di carnevale, principalmente per favorire un accrescimento e un ingrasso più rapidi e per ottenere carni più delicate.
Così come veniva compiuta, non era uno spettacolo bello da vedere, suscitava raccapriccio.
La brutale mutilazione veniva fatta, senza alcuna forma di anestesia, nelle vie pubbliche, a contatto con le deiezioni solide e liquide che, miste al sangue animale, sprigionavano un fetore che ammorbava l’aria. Quasi sempre, le grida atroci di dolore e spavento delle povere bestie si mischiavano agli schiamazzi di una piccola folla di ragazzi.
Un’altra visione ripugnante era quella dei cani randagi che si contendevano le ovaie sanguinanti e si chinavano a leccare il sangue sparso per terra.
L’operazione non durava in tutto che cinque o sei minuti per ogni castrazione e ad assistere il castratore c’erano sempre due contadini locali, che venivano ripagati con più di un boccale di vino. Essi avevano il compito di afferrare subito l’animale da castrare, che si dimenava e strepitava, tenerlo ben fermo per le zampe o sdraiarlo a pancia all’aria.
Ubaldo Doré