Presentazione del racconto "La passerella" di Gino Lombardo
Sicuramente inizierò con lo scrivere delle frasi insulse, dette e ridette, ma resto dello avviso che l’amore profondo, che noi figli nutriamo e custodiamo nel profondo dell’animo, verso i nostri genitori, della cui presenza ci siamo alimentati fin dalla nascita, cresce, sempre più a dismisura, in specie quando il tempo, inesorabilmente, ci priva della loro presenza.
Frughiamo così nel passato, affannosamente, alla ricerca di qualche cosa che li accomuni: azioni, gesti, parole, episodi e ricordi sopiti, con la bramosia di rispolverarli e rievocarli per mantenere vivo quel legame che è dentro di noi, ma che purtroppo, fisicamente, non esiste più.
Non me ne vogliano gli amici per questa mia riflessione, ma dopo avere terminato di leggere “La passerella”, mi è venuto spontaneo affermare: “È un racconto veramente bellissimo, traboccante di amore filiale!”
Ritengo doveroso precisare che Gino, il cucciolo di casa Lombardo, cui sono legato da profonda stima e amicizia, è limpidese acquisito.
Natio di Bagnara Calabra, a Limpidi è venuto prima nel 1980 e poi nel 1982, all’età di 24 anni, per impalmare la sua Maria (Maria Cecilia Maiuolo), e qui ha dimorato per diversi anni, conquistandosi, in breve tempo, l’amicizia della gente e in particolare la simpatia dei giovani. Riguardo al paese, dove è riuscito a integrarsi nella tranquilla realtà sociale, ha scritto così: “Nel 1980 ho conosciuto delle persone stupende, ricordo il mio povero suocero Raffaele,… Ho conosciuto un paesino bello e tranquillo dove la gente amava la vita semplice, genuina e conviviale,… Che dire dei limpidesi, quasi tutte persone amabili e a volte anche caratteristiche.”
Poi, nel 1992, per motivi di lavoro, si è dovuto trasferire, con i due figli, nati a Limpidi, e la moglie, a Pistoia, dove vive tuttavia.
Nelle sue frequenti visite al piccolo borgo, in cui vivono i parenti, non dimentica di venirmi a trovare, per un saluto e per scambiare quattro chiacchiere. Poiché è a conoscenza dell’interesse che nutro per le storie del passato, mi ha voluto fare un regalo: mi ha reso partecipe della vita del padre piena di vicissitudini.
È uno scritto, pieno di calore, che ho letto di un fiato.
L’ho trovato molto bello, un po’ un “curriculum vitae” interessante e molto circostanziato. È la storia avvincente di un giovinetto con un amore particolare, che decide di troncare il corso di studi per proseguire in quell’arte che poi, oltre ad avergli dato belle soddisfazioni, lo ha portato a creare un’opera di rilevanza storica. Non me ne voglia se, arbitrariamente, mi permetto di renderlo pubblico.
Sono convinto di fare, ugualmente, un regalo ai tanti amici che certamente saranno desiderosi di leggerlo.
Grazie Gino. Un abbraccio.
Ubaldo Dorè
"La passerella" di Gino Lombardo
Cominciava ad albeggiare sulle acque dello stretto di Messina, dal colore cangiante, quella mattina di settembre e, nel silenzio, tipico degli autunni tiepidi di quei luoghi, sul litorale calabro, diverse persone, avevano già iniziato a lavorare.
Fin dalla notte dei tempi, da questi lidi, in particolari condizioni atmosferiche, con un minimo di fortuna, è stato sempre possibile assistere al prodigioso fenomeno ottico della fata morgana, grazie al quale, le isole Eolie, sembrano molto più vicine di quanto non lo siano realmente, insieme a molti altri miraggi.
Particolari suggestioni, queste, create solo dallo stretto di Messina.
Ninai, fermo all’ingresso del suo cantiere in Alì Terme, sul versante ionico della provincia di Messina, dov’era nato nel 1910, immerso in quel silenzio, rotto solo dal ritmico, debole, sciabordio del mare appena increspato era in procinto di partire.
Doveva attraversare il canale, dallo Ionio al Tirreno, su un’imbarcazione modellata pezzo per pezzo con le sue sapienti mani, un’untru, da poco tempo varata per la prima volta, e approdare al più presto alla marina di Bagnara, per consegnarla al pescatore del luogo per conto del quale l’aveva costruita.
Tutto era già pronto per la festa di battesimo e, su quella riva, c’erano ad attendere il pescatore insieme a tutta la sua ciurma, una vasta rappresentanza della parentela e diversi altri invitati.
Ultimo di cinque figli, ancora undicenne, per assecondare il desiderio del padre, Rocco, aveva intrapreso un corso di studi e, per questo motivo, tutte le mattine, partiva da casa per recarsi all’Istituto di avviamento tecnico.
Per raggiungere la scuola, doveva obbligatoriamente passare da un luogo in cui era ubicato un grande laboratorio, nel quale si costruivano imbarcazioni, sia di modeste nonché di grandi dimensioni.
Qui si soffermava sovente e a lungo, attirato com’era da quella professione, a osservare attentamente gli esperti, assorti nel loro lavoro, tanto da farsi notare.
Si entusiasmò e, dopo appena cinque mesi dall’inizio del corso scolastico, si decise a manifestare la volontà di volerlo abbandonare, per apprendere l’arte di costruttore d’imbarcazioni.
Come é risaputo da tutti, nella maggior parte delle famiglie, i genitori hanno sempre un qualche debole per uno dei figli e, in effetti, in quella di Ninai, c’era una particolare attenzione verso il cucciolo, l’ultimo nato.
Il padre, a malincuore, dovette sottomettersi al suo desiderio.
Rocco Paradiso, com’era chiamato in paese, non potendo fare altro, cercò di sfruttare le amicizie, delle quali godeva nella zona, per venirgli in aiuto, mettere una buona parola in suo favore.
Era persona particolarmente seria e dedita alla carità, molto conosciuta perché economo del collegio femminile dei salesiani, e si decise di accompagnarlo al cantiere, per pregare il direttore di volerlo ammettere come apprendista.
La richiesta fu accolta favorevolmente anche perché, il direttore, in realtà, lo aveva già notato più volte ed era rimasto colpito dalla frequenza delle visite, tanto da intuire che qualcosa di buono stava maturando nella mente del giovanetto.
Immediatamente, Ninai, cominciò a frequentare il laboratorio, senza mancare un solo giorno e, a imparare i primi elementi.
Seguiva, inoltre, assiduamente, dei corsi serali di matematica e disegno tecnico, nei quali si distingueva per la particolare capacità di apprendimento, completando, in quel modo, quanto aveva acquisito nelle scuole elementari dalle quali ne era uscito a pieni voti.
Poteva contare, quindi, anche su una discreta base culturale.
Aveva del talento, possedeva una spiccata inclinazione per quell’impresa e molta volontà di scoprire le tecniche e i segreti del mestiere.
I suoi maestri non tardarono ad accorgersene.
Lo assistettero, con molto interesse, per pochi anni, fino a quando furono certi della sua idoneità a svolgere il lavoro tutto da solo.
A quel punto, forte delle sue conoscenze, aprì il laboratorio, pur mantenendo continui contatti con i suoi vecchi maestri.
Nonostante la giovane età, era già un profondo conoscitore del mestiere di mastro d’ascia.
Era determinato a svolgere la propria attività con cura e precisione scrupolosa e, pertanto, le sue imbarcazioni, dovevano essere rifinite a perfetta regola d’arte, curate esteticamente ma, principalmente, rassicuranti per l’equipaggio.
Dovevano inoltre possedere tutte quelle caratteristiche di leggerezza e robustezza, necessarie per non appesantire il lavoro dei rematori e per essere, in mare, abbastanza filanti.
Quella mattina di settembre, l’untru, agile ed elegante, aveva già preso il largo e stava scivolando, silenziosamente, sulle acque dello stretto, sotto la spinta gagliarda dei vogatori, vestiti a nuovo, come se dovessero andare a una festa di nozze.
Il battesimo era una funzione religiosa, con tanto di prete e di madrina.
Il prete imprimeva il nome alla barca e la madrina suggellava, con il tradizionale taglio del nastro, per l’inaugurazione, accompagnato, come buon augurio, dalla rottura di una bottiglia di liquore sulla prora, un rapporto di amicizia indelebile negli anni tra le due famiglie: quella del proprietario e quella della madrina.
In quel lontano 1935, un’untru rappresentava una risorsa enorme per una comunità di pescatori.
All’approdo, Ninai, fu accolto con tutti gli onori, con grandi complimenti da parte di quella gente e, il più anziano di loro, dopo averla ispezionata attentamente, si avvicinò esclamando: «Maestro, ma vui li pittati li barchi, aviti ‘na mani magica! (Maestro, ma voi le dipingete le barche, avete una mano magica!)».
Lui, da uomo molto schivo e semplice qual era, accettò il complimento ma non proferì verbo, si limitò, da buon siciliano, a una risposta con un cenno del capo, come per dire grazie.
La barca fu tirata in secco, facendola scivolare sulle falanghe e, alcune donne si diedero subito da fare, per agghindarla, come se fosse stata una bella dama alla sua prima uscita, mentre altre, in casa, avevano già preparato il pranzo con la migliore parte del pescato: ricciole, saraghi e un sughetto di lupi, lumere e scorfani, che avrebbe ridestato i morti.
A tavola, accanto al patriarca della famiglia, Micu, sedeva Ninai, il mastro d’ascia, con tutto il suo seguito di rematori e aiutanti di laboratorio.
Il vecchio guardava con ammirazione l’uomo, il giovane costruttore della Santa Rita, nome che fu imposto dalla famiglia alla barca.
Micu a un certo punto del pranzo, si rivolse a Ninai: «Ti dovrò presentare un mio amico, un bravo pescatore, ha bisogno anche lui di un’untru per la pesca del pesce spada, puoi stare certo, appena avrà visto la Santa Rita, te ne commissionerà una sicuramente!». Ninai lo ascoltò, educatamente, dimostrando interesse e molta disponibilità.
Più tardi, quando fu il momento di varare lo scafo, accompagnato dalla benedizione del prete e dagli applausi dei numerosi presenti, Micu invitò il suo amico, tale Oteri, ad avvicinarsi dicendogli: «Veni, veni accà! Ti voglio presentare un grande maestro!», e, cinse, con un braccio, le spalle a un bel giovane bruno, con il colore degli occhi uguali a quello del mare della Costa Viola, dal sorriso aperto e sincero.
Dopo la presentazione, Micu chiamò in disparte Ninai per mettere la buona parola: «Questo è un giovane in gamba, un onesto lavoratore, ma ha bisogno del tuo aiuto perché, purtroppo, non ha grosse disponibilità economiche!».
Senza dimostrare alcun turbamento per la precisazione, Ninai accolse l’intervento del vecchio pescatore in favore del giovane.
Avrebbe senz’altro costruito una bella barca per il nuovo cliente e, alla presenza del vecchio marinaio, gli fece anche la seguente rassicurazione: «La mia parola è contratto! Stai tranquillo, avrai l’untru prima dell’inizio della pesca. Se non troverai tutto il denaro per pagarmi per quella data, mi darai una parte e per la rimanenza, potrai onorare il tuo debito, sono sicuro, con i guadagni sulla vendita dei pescati.»
Si sorrisero e, con una stretta di mano, completarono il contratto, come si usava una volta nella società dei semplici.
Micu era come un anfitrione tra la sua gente, a lui si rivolgevano le persone per un aiuto in caso di bisogno e, sempre pronto a dare consigli, com’era l’usanza di quell’epoca, combinava anche matrimoni.
Godeva, pertanto, di rispetto non solo nella comunità dei pescatori, ma anche nel resto del paese, costituito da tanti ceti diversi: buoni commercianti, artigiani, latifondisti e nobili.
Tra il vecchio marinaio e Ninai si era instaurato, ormai, un rapporto di amicizia e simpatia e, Micu, certo di fare cosa buona, rivolgendosi, in quella circostanza, al giovane maestro gli sussurrò: «Senti, anche tu hai una certa età e…, dovresti pensare ad una sistemazione, mi piacerebbe… che trovassi una buona moglie nelle Calabrie!».
Timidamente, Ninai, sorridendo, fece un cenno d’intesa e, i suoi occhi si posarono su una ragazza invitata alla festa per il battesimo.
Era una giovane amica di famiglia, e a lui apparve bella come il più bel primo mattino allo spuntar del sole, dal portamento distinto, dignitoso.
Come se l’avesse conosciuta da sempre, se ne innamorò!
Sta scritto nei libri, dove i mortali non sono legittimati a leggere, che le cose devono andare in certo senso e infatti, alcuni anni dopo, Ninai impalmò Maria, la fanciulla conosciuta in quel fatidico giorno di settembre.
I primi anni insieme, furono segnati dalla perdita del primo figlioletto, morto durante il parto, mentre dense nuvole minacciose si stavano rapidamente addensando all’orizzonte delle nazioni e, tempestosi venti di guerra soffiavano sull’Europa.
Nonostante tutto gli pervenivano, ogni giorno sempre di più, nuove commissioni.
Doveva far fronte, e continuava a costruire, nel suo cantiere in Sicilia, barche su barche, sempre più belle.
Maria accudiva alle faccende domestiche, assisteva gli anziani suoceri e aiutava, come poteva, il suo sposo.
A quei tempi, però, nelle tasche dei pescatori circolavano pochi soldi: parecchio lavoro, ma guadagni sempre pochi!
Il mare era l’unica fonte di guadagno, di sostentamento ed essi, comunque, avevano bisogno di barche sempre più progredite, competitive, per il loro duro lavoro.
L’abilità di costruire simili strumenti per la pesca, in particolar modo del pesce spada, era ormai nota a tutti in Calabria e in Sicilia: era quella di Ninai.
Gli pervenivano commesse di marinai facoltosi ma anche da parte di padri di famiglia in serie difficoltà economiche.
A questi ultimi non se la sentiva di negare aiuto.
Era uno spirito forte, un altruista e non sopportava veder soffrire il prossimo: aveva innato il senso della solidarietà.
«La mia parola è contratto!» aveva detto a Oteri. «Stai tranquillo, avrai l’untru prima dell’inizio della pesca. Se non troverai tutto il denaro per pagarmi per quella data, mi darai una parte e per la rimanenza, potrai onorare il tuo debito, sono sicuro, con i guadagni sulla vendita dei pescati.»
Stava in mezzo alla sua gente, e in un impeto di generosità fece lo stesso discorso con gli altri clienti, guadagnandosi, principalmente, rispetto e stima.
Intanto, l’Italia fascista, prometteva un futuro da impero.
Chiedevano gente per le colonie, soprattutto uomini competenti a svolgere un lavoro specializzato.
La guerra sembrava lontana e Ninai, d’accordo con un amico del suo paese, decise di partire per Tripoli dove, nell’arsenale militare, c’era la possibilità di guadagnare anche fino a cento lire al giorno.
Aveva necessità di guadagnare qualche soldo, costituire un gruzzoletto, per potere aprire, tornando, se tutto andava bene, un cantiere più grande, magari a Bagnara, dove la moglie aveva la sua famiglia.
Il giorno della partenza, il distacco fu doloroso ma, non si poteva lasciar andare quella opportunità di lavoro perché, in famiglia, c’era tanto bisogno.
Si abbracciarono... in tre: Maria portava in grembo una bambina!
Tripoli brulicava di italiani e c’era tutto un fervore di attività militari.
Le forze italo-tedesche avevano ricacciato gli inglesi dalla Libia penetrando anche in Egitto.
Rommel, lo stratega, vedeva aperta la strada verso il Cairo e la possibilità di raggiungere il canale di Suez entro l’autunno.
Un migliaio di carri armati distrutti e 60.000 prigionieri avevano creato l’illusione della definitiva vittoria dell’asse nel nord-Africa.
Nell’arsenale militare, Ninai, trovò la paga sicura e i tedeschi, buoni datori di lavoro, apprezzavano molto l’operato delle maestranze italiane.
Si eseguivano lavori per la flotta dislocata nel Mediterraneo, vi lavoravano molti italiani tra i quali diversi compaesani e, questo rappresentava un motivo di sollievo, in particolar modo quando assaliva la nostalgia, per sentirsi meno lontani dal suolo natio.
I nord-africani, non gradivano molto la presenza straniera ma, ne accettavano la convivenza con malcelata rassegnazione.
Il lavoro riempiva le giornate, facendole scorrere veloci!
Un giorno, il comandante tedesco, responsabile del reparto dove lavorava il personale italiano più numeroso, fece chiamare alcuni operai, tra i quali c’era un certo Gaetano, amico e compaesano di Ninai, per alare una barca finita in secca, forse a causa di qualche deriva, a seguito di mareggiata oppure dopo un combattimento navale.
Dimostrava, in modo evidente, di avere un interesse particolare per quel natante, fortemente danneggiato e, in un italiano abbastanza comprensibile, rivolgendosi proprio a Gaetano, domandò se lui fosse a conoscenza di qualcuno capace di recuperarlo e, in caso affermativo, di farglielo conoscere.
Gaetano, senza perdere tempo, si precipitò nel cantiere per chiamare Ninai, il quale d’innanzi al tedesco, rimase imperturbabile, anche se in cuor suo era pieno di orgoglio.
Osservò attentamente lo scafo, ma non c’era niente da fare e glielo disse in modo esplicito.
Si accorse, però, del turbamento del tedesco alla risposta così categorica e, pensando di tranquillizzarlo, aggiunse, con molta calma che, se proprio era necessario, lui sarebbe stato in grado di costruirne uno più grande e più robusto.
Dopo una pausa, con un fare molto prudente, il tedesco obiettò: «Vuoi scherzare? Tu saresti in grado di costruire una nuova imbarcazione?»
«Proprio così!» Rispose, senza scomporsi, Ninai: «Dammi i disegni ed io la realizzerò..., ti do la mia parola.»
Cambiò espressione il volto del tedesco, perché sembrò convinto e, prima di andarsene, promise un’adeguata ricompensa se effettivamente fosse riuscito nell’impresa.
I disegni gli furono consegnati, qualche giorno dopo, in una voluminosa busta, dall’attendente.
Il lavoro era molto impegnativo e lo capì immediatamente ma, ormai non poteva più tirarsi indietro.
In serata, nel suo alloggio, con calma, esaminò gli elaborati tecnici, per rendersi conto dell’opera da realizzare, stabilendo, alla fine il suo programma:
- per quella costruzione c’era bisogno di gran quantità di legname, di attrezzature apposite e tutto questo si trovava solamente nel cantiere dell’arsenale dove era possibile eseguire il lavoro;
- le maestranze dovevano essere costituite, in tutto, da minimo cinque unità, quattro scelte da lui stesso nel reparto, libere da altri impegni per almeno un mese, tempo previsto per ultimare il lavoro.
Il giorno seguente si recò dal comandante, per esporre il suo piano, il quale, oltre a dichiararsi d’accordo, gli lasciò libertà di scelta dei collaboratori.
Era determinato a svolgere la propria attività con cura e precisione scrupolosa e, pertanto, le sue imbarcazioni, dovevano essere rifinite a perfetta regola d’arte, curate esteticamente ma, principalmente, rassicuranti per l’equipaggio.
Dovevano inoltre possedere tutte quelle caratteristiche di leggerezza e robustezza, necessarie per non appesantire il lavoro dei rematori e per essere, in mare, abbastanza filanti.
Si era dato questa regola, all’inizio dell’attività, e doveva rispettarla anche per non deludere le aspettative, e consegnare al soldato tedesco, che aveva creduto in lui, un’opera bella come aveva promesso.
Di buon mattino, di domenica, in cinque, tra i quali l’amico Gaetano, diedero inizio ai lavori.
Ninai incominciò a tracciare le ordinate e, via via a tagliarle mentre, Gaetano e gli altri tre, gli obbedivano con particolare passione.
Lavoravano tutto il giorno, fermandosi un poco solo per consumare un frugale pasto.
Solamente, verso le sette di sera, compariva il comandante, per visionare il lavoro già fatto.
Ninai, intento com’era a tagliare, tracciare e rifinire le costole, il più delle volte, non si accorgeva di lui.
Aveva la volontà di completare l’opera il più presto possibile.
La presenza dei cinque nel cantiere, era ogni giorno sempre più assidua e i lavori procedevano alacremente.
Intanto, giorno dopo giorno, lo scafo prendeva sempre più forma, diventava sempre più bello ed elegante!
Il tedesco tutto questo lo aveva notato, durante le sue visite, con evidente soddisfazione e, una sera, prima di andarsene, con un sorriso, invitò Ninai a ridurre l’orario di lavoro.
Una bella notizia, giunta dall’Italia, lo rallegrò enormemente e rese felici anche i collaboratori: la sua Maria aveva partorito la bimba e si trovava in Sicilia assieme agli anziani suoceri.
Questo lieto evento contribuì a infondere maggiore lena e volontà di lavoro.
Il giorno in cui la barca fu pronta per il varo, era armata con tanto di bitte lucenti, albero, sagole e di un bel timone a barra con i colori dell’asse.
Una fila di bandierine da prua a poppa, passando per la cima dell’albero, le conferiva l’aria da festa.
Il comandante, soddisfatto di quella riuscita, non stava nei suoi panni, egli amava il mare e la navigazione più di ogni cosa nella sua vita.
Era molto grato a quell’italiano altero, taciturno, tanto meritevole di rispetto e, volle personalmente manifestargli l’apprezzamento per l’eccellente lavoro.
Per il varo aveva scelto un’occasione del tutto particolare e inaspettata.
Due giorni dopo ci sarebbe stata una visita alla guarnigione, molto importante, quella del generale Rommel e, aveva pensato di approfittare di quella circostanza per far prendere il mare alla nuova imbarcazione.
Lo confidò a Ninai il quale non poté fare altro che prendere atto con molta soddisfazione.
II giorno della visita della volpe del deserto, tutto era in perfetto ordine.
Le guarnigioni tedesche, stavano allineate e contrapposte davanti alle milizie italiane.
Da un lato stava schierato anche il personale civile di entrambi i paesi dell’asse.
Rommel, in tenuta coloniale, aveva già iniziato a passarle in rassegna.
Era sicuramente una bella figura, rendeva onore al suo mito.
Chissà come, lo sguardo della volpe andò a posarsi proprio lì dove era stata collocata l’imbarcazione, nuova e imbandierata, in attesa del varo.
Chiese qualcosa al responsabile della guarnigione.
Qualche minuto dopo, Ninai fu chiamato e invitato a presentarsi d’innanzi al generale.
Quando Rommel, lo ebbe al suo cospetto, gli sorrise, pronunciando poche parole in italiano.
Erano un complimento per la bella imbarcazione, oggetto della sua attenzione, nonché l’ammirazione per il costruttore.
Ninai non dimenticò, per tutta la vita, la sensazione di grande emozione e di orgoglio di quel giorno ma, soprattutto, non dimenticò mai quella splendida figura di ardito condottiero e quella squisita e gentile persona del comandante della guarnigione.
I giorni seguenti non furono così eccezionali, trascorrevano con monotonia mentre il conflitto si espandeva e le notizie dall’Italia divenivano sempre più rare.
Purtroppo nell’estate del 1942 la corsa di Rommel verso Suez si arrestò.
Giunto a El Alamein, attese invano l’arrivo delle forze richieste per battere gli inglesi e, dopo una battaglia accanita, dal 23 ottobre al 3 novembre 1942, costata centinaia di migliaia di vittime, con la penuria di munizioni e di carburante, contro la superiorità aerea degli alleati, si vide costretto a una lunga ritirata.
La situazione a Tripoli, era divenuta poco tranquilla e alcuni italiani erano già rientrati in patria.
Correvano notizie non confortanti.
La maggior parte delle personerientrate per mare non aveva raggiunto sana e salva l’Italia a causa delle continue incursioni della marina e dell’aviazione degli alleati.
L’unica via, forse la più sicura, era quella di rientrare con un passaggio aereo.
Ninai decise di approfittare di un volo su un aeroplano disponibile, mentre Gaetano optò per la nave..., di lui non si ebbero più notizie.
«Ci vediamo appena possibile..., appena avrò saputo qualcosa della mia famiglia», così aveva salutato, partendo, ma non si rividero mai più.
Il 23 gennaio 1943 gli inglesi entrarono vittoriosi a Tripoli, mentre le forze dell’asse continuarono a ritirarsi dalla Libia alla Tunisia, dove resistettero fino a primavera, perdendo circa 200.000 uomini.
Nel maggio del ‘43 la guerra in Africa era finita e gli anglo-americani poterono usarne le basi per sbarcare in Sicilia il 10 luglio.
In Sicilia, Ninai era riuscito a rientrare, fortunosamente, alla fine del 1942.
Fu un triste ritorno il suo.
Aveva sognato, per tanto tempo, il ritorno a casa accolto dalle braccia della sua Maria con la bambina, e invece aveva trovato una mamma, sola, distrutta dal dolore.
La figlioletta, un tenero bocciolo di rosa, era stato strappato, crudelmente, dall’amore dei genitori, dalla spietata falce della morte.
Tra le altre cose trovò il cantiere semidistrutto dalle delle incursioni aeree su Messina e sulla costa.
Per fortuna, non c’erano stati danni alle persone.
Ciononostante bisognava continuare a lottare, pensare al domani e, assieme a Maria, fece ritorno in Calabria, a Bagnara.
Nel luglio del 1943, i bombardamenti alleati, si erano fatti, ogni giorno, sempre più intensi.
Tutte le notti i bengala illuminavano i cieli, mettevano a nudo la fragilità delle difese dei territori bombardati, poi a tappeto, da nugoli di aeroplani, con conseguente distruzione e morte.
Maria, quella sera, era in un particolare stato di agitazione e, prevedendo altre incursioni, propose, al suo compagno e ai suoi fratelli, di allontanarsi dal centro abitato di Bagnara, verso le campagne, dove si poteva essere più sicuri.
Così, inerpicandosi tra vigne e rovi, con il mare turchino alle spalle, tutti insieme, andarono alla ricerca di probabili rifugi.
Era quasi buio quando arrivarono a un palmento, dove si era già rifugiata una famiglia con bambini in tenera età.
Maria, però, aveva uno strano presentimento, quello non era un posto sicuro e, insistette, con i suoi, per proseguire verso altri luoghi.
Dopo aver salutato la famigliola, nonostante il buio, si avviarono altrove.
Seppero, dopo qualche giorno, che una bomba era caduta sul palmento, senza lasciare scampo a nessuno degli occupanti.
L’odore della morte si mescolava con il profumo dello zibibbo maturo e con il salmastro che saliva dal mare.
Tra fame, paura e dolore la guerra finì per tutti, lasciando anche a Bagnara tanti disastri.
Per Maria finì quando uscì da casa per riabbracciare il fratello, partigiano, dato per disperso.
La guerra dalla quale l’Italia ne era uscita mortificata, con le ossa rotte, aveva portato dappertutto solo morte e distruzione, non aveva restituito alle mamme nemmeno le spoglie dei figli, sottratti con la forza, e, mandati a morire.
Ora bisognava risalire la china, ricostruire, anche se la ricostruzione non si presentava molto facile.
Tuttavia, specialmente tra i giovani e gli operai, era forte la speranza in un domani migliore e grande il desiderio di rimboccarsi le maniche per ricominciare con una nuova vita.
Dopo diversi anni, Ninai, ritornando a Bagnara, aveva potuto riabbracciare molti vecchi amici, tra i quali anche Oteri, diventato un poco invecchiato ma con lo stesso sorriso schietto di un tempo.
Purtroppo qualcuno mancava, e a lui si strinse il cuore.
Il vecchio pescatore, l’anfitrione, il buon Micu, se ne era andato tra il rimpianto di tutta la popolazione, lasciando un grande vuoto.
Con la ferma volontà di riprendere la sua attività di sempre, d’accordo con la sua sposa, decise di aprire un laboratorio.
Faticosamente riuscì a portare dal paese natio qualche cosa del materiale e delle attrezzature rimaste intatte, quelle più necessarie, con le quali riuscì a costituirne uno attrezzato.
Nel frattempo la famiglia era aumentata, doveva provvedere al nutrimento di due nuove bocche, e sia lui nonché Maria non potevano stare senza far niente.
In quel periodo però, e in particolar modo nella comunità dei pescatori, la fame si aggirava minacciosa.
Troppo devastanti erano stati gli effetti del ciclone.
Riceveva in continuazione richieste di aiuto, un poco di lavoro per un pezzo di pane, ma, purtroppo, le sue possibilità ancora erano molto limitate.
Il conflitto aveva coinvolto quasi tutti i paesi del mondo, con conseguenze disastrose sulla vita di milioni di persone, sui poveri principalmente anche a Bagnara.
Intanto era già cominciato il ritorno dei soldati dal fronte e dalla prigionia.
Si trattava di giovani i quali, partiti sani e robusti, tornando piagati nel corpo e distrutti nel morale, trovavano, tra le altre cose, il più delle volte, situazioni familiari diverse da come le avevano lasciate partendo.
I generi di prima necessità erano scomparsi, si trovavano solamente al mercato nero a costi nonsostenibili dalle classi povere.
A farne le spese, oltre ai poveri e agli esponenti della piccola borghesia impiegatizia, erano pure le classi più agiate.
La cartamoneta di occupazione in circolazione, le “am lire”, in loro possesso, non veniva più accettata dai contrabbandieri e, pertanto, l'unica via per ottenere pane, pasta, latte, zucchero etc., era divenuta il baratto dei beni personali, solo per assicurare pochi pasti alle famiglie.
Erano frequenti i casi di nuclei familiari, abituati alla vita comoda, ridotti quasi allo stato di povertà per aver barattato tutti i gioielli o altri oggetti di valore.
Per potersi sfamare, si ricorreva alla raccolta delle erbe selvatiche, date come cibo anche ai bambini, a volte, semplicemente bollite, senza alcun condimento
In questo marasma, i furti nelle abitazioni dei centri abitati come pure nelle case di campagna, da parte di bande di malviventi, erano continui e, non era raro il verificarsi, anche, di violenze perpetrate su giovani donne.
Tutte le attività, con particolarità quelle artigianali, pertanto, faticavano ad andare avanti, a decollare, non c’erano ordinazioni.
Era una vera tragedia.
Tra innumerevoli sacrifici, rinunce e privazioni, quel periodo triste fu superato.
Molto lentamente la vita cominciò a riprendersi, anche se, di ritorno alla normalità, era ancora presto parlare, troppo profonde erano le ferite.
Nei primi anni ’50 fu Oteri a fare la prima commissione: «Ninai, voglio che tu mi costruisca una grande barca per la pesca al pesce spada. Una cosa nuova, che dovrà rivoluzionare il metodo adottato finora, da consentire, ai pescatori, di ottenere un guadagno maggiore con una fatica meno pesante. Questa solamente tu la sai fare!».
L’idea non era peregrina e Ninai lo guardò negli occhi con un sorriso.
A questo tipo d’imbarcazione, in effetti, lui stava pensando da diverso tempo.
Ne aveva in mente una, spinta dall’elica di un motore a scoppio, da lui già montato su altre barche, con delle caratteristiche tecniche particolari, adeguata ai tempi, che consentisse di installare un’armatura di ferro sulla prua e un’antenna pure di ferro.
Questa armatura, più lunga dell’antenna, albero maestro, avrebbe dovuto permettere al fiocinatore di trovarsi a pochi centimetri dal pelo dell’acqua, quasi sulla preda, il pesce spada, il più veloce dei pesci conosciuti, ancor prima che lo stesso se ne rendesse conto.
A quei tempi, la pesca al pesce spada era difficoltosa, rudimentale e primitiva, un lavoro massacrante che risaliva quantomeno al secondo secolo avanti Cristo.
L’avvistatore, dalla vista acutissima, aveva il ruolo principale, era la figura più importante.
Questo se ne stava, tutto il giorno, appollaiato su un costone di roccia, posto ad una altezza variante fra gli 80 e i 150 metri, a scrutare in continuazione, il mare fin dove glielo consentiva la vista.
Nello scorgere il pesce, o la pariglia, urlava, con tutto il fiato che aveva in gola: «Ajà! Allujà! Dirittu a tia! (Lì! Eccolo! Davanti a te!)», facendo segnali con una banderuola all’equipaggio dell’untru, fermo, in attesa ai piedi dell’osservatorio.
A questo punto, i rematori, forzando fino allo spasmo sui remi, si lanciavano velocissimi nella direzione indicata, mentre, la vedetta sull’altura continuava a fornire a voce indicazioni sulla posizione del pesce.
Su un albero centrale della barca, alto pochi metri, stava abbarbicato un marinaio con il compito di dirigere, con più precisione, il fiocinatore, a distanza utile dalla preda.
Il fiocinatore, detto u lanzaturi, era pronto con la sua fiocina sempre affilata, ritto sul castelletto di prua.
Non sempre l’impresa andava a buon fine, il pesce sembrava volare nell’azzurro del mare, l’untru non sempre aveva la corrente a favore e…, la mira du lanzaturi non sempre era infallibile.
A volte, il risultato di giorni e giorni era solo la fatica immane, resa ancora più grave dal sole sempre implacabile.
Ninai, voleva bene al suo amico Oteri e a tutta la gente di mare.
Era forte in lui il desiderio di creare nuovi strumenti, adeguati ai tempi, in grado di alleggerire lo sforzo enorme al quale era sottoposta, molto spesso, con risultati deludenti.
Il compito non si presentava tanto facile ma Oteri lo incalzava in continuazione.
Incominciò a concentrarsi, a fare calcoli su calcoli e diversi disegni.
La nuova imbarcazione non doveva diventare oggetto di chiacchiericcio in tutta la costa e altrove, c’era di mezzo la sua dignità, questo era molto importante!
Avrebbe dovuto servire per soppiantare il sistema di pesca adoperato finora e perciò doveva essere più grande, in grado di sopportare un peso maggiore, robusta e, nel contempo, leggera e facilmente manovrabile.
Sul mare, talvolta tempestoso, si sarebbe dovuta mantenere talmente equilibrata, da rimanere perfettamente a livello, pur avendo a bordo tutto quel peso enorme costituito: dall’antenna con l’avvistatore, dalla struttura di ferro installata a prua, dal fiocinatore, dagli altri marinai, da tutte le attrezzature necessarie e da un pesante motore a scoppio.
Il metodo tradizionale di costruzione, finora usato, non era più valido.
Oteri, aveva vinto la partita perché Ninai si decise, dopo lunghe riflessioni, di intraprendere i lavori di costruzione della nuova e moderna imbarcazione.
Nel laboratorio, ogni giorno, impartiva continue istruzioni, ai suoi giovani collaboratori, sulle modalità di esecuzione del lavoro.
Aveva già fatto predisporre tutto il legname, le attrezzature e ogni altro materiale necessario allo scopo senza tralasciare alcunché.
Avviata la costruzione, la notizia si diffuse velocemente in paese.
I pescatori, scalzi, così come erano sempre vissuti, si recavano al cantiere, mossi da grande interesse e curiosità.
Erano scettici sulla riuscita della novità, ma anche fiduciosi sapendo che a realizzarla sarebbe stato Ninai, il ben noto mastro d’ascia, dalle cui mani erano, sempre, uscite soltanto opere di pregevole fattura.
Maria, già a conoscenza del progetto del suo sposo, verso il quale nutriva un amore immenso, lo seguiva silenziosa e servizievole.
Vedendolo tutto il giorno impegnato, senza un attimo di sosta, si preoccupava di portare, direttamente sul posto di lavoro, le vivande, all’ora del desinare, anche per i collaboratori e, si prodigava, fino a tarda sera per dare una mano al marito, come poteva, con dignità e religioso silenzio.
I giorni passavano e il natante acquistava sempre più forma, veniva avanti, bello e imponente.
La carena era stata progettata per navigare bene e per affrontare il mare, nelle più diverse condizioni, in totale sicurezza.
Ninai aveva anche previsto di aggiungere ai lati della pancia due alettoni per evitare pericolosi rollii.
Arrivò il giorno in cui fu calato il motore all’interno, tirato l’asse, montata l’elica d’ottone lucente, fissata tutta l’antenna come albero centrale, con una torretta per l’avvistatore.
Fu posta anche in essere, a prua, la struttura di ferro con le pedaline di legno.
Tutti, guardavano la cosa con aria attonita e, allo stesso tempo, frementi di ammirarla sulle onde, per vedere come si sarebbe comportata con un mare a volte bizzoso.
Oteri, intanto, aveva già trovato il suo equipaggio.
Giovanotti pieni di buona volontà i quali, sebbene coraggiosi, non nascondevano, anche loro, dubbi sulla riuscita.
Ninai, al contrario, non aveva riserve di alcun tipo, a quella barca aveva dato tutto se stesso, era la parte migliore della sua arte creativa.
Era certo, quell’opera in legno, la sua creatura, non lo avrebbe tradito.
Oteri, invece, passata la baldanza iniziale, ora aspettava muto e titubante.
«Ninai, comu ti pari sta...cosa? (Ninai, come ti se sembra questa...cosa?)» farfugliò, volendo dire: «A tuo giudizio, come è venuta?».
«Tu si piscaturi..., e pisca, non ti preoccupari! (Tu sei pescatore…, e pesca, non ti preoccupare!)»
Rispose sorridendo Ninai.
Il giorno del varo fu caratterizzato da un frenetico viavai.
Tutto il personale, assieme alla ciurma, si dava un gran da fare per disporre le falanghe, l’una dopo l’altra, come tante traversine di binari, a mano a mano che lo scafo scendeva verso il mare.
Ninai aveva stabilito di farla scivolare dalla parte poppiera onde evitare che la punta della prua urtasse contro la battigia.
Come una grande nobile signora, la barca si adagiò sull’acqua, cominciando a galleggiare con straordinaria eleganza.
La ciurma saltò a bordo, con un Oteri paonazzo e trepidante, e subito, uno di essi, volle camminare fino punta della prua, sulle pedaline, provando, per primo, l’ebbrezza di trovarsi a pochi centimetri dal pelo dell’acqua mentre un altro volle arrampicarsi sull’antenna.
Con uno sbuffo nero, il diesel si avviò e, dopo poco, diede un sussulto di vita alla barca che, prima lentamente e poi più velocemente, iniziò a scivolare sulle ondeche, ora solcate di fresco, sprigionavano bianchi e profumati spruzzi.
La gente guardava sbalordita e muta.
Ninai, contemplando la sua creatura e stringendo forte la mano alla sua compagna, si rivolse ai giovani collaboratori, pronunciando, con voce quasi rotta dall’emozione: «Sembra un gabbiano... che plana sull’acqua!».
Il varo del moderno peschereccio ebbe risonanza in tutta la costa e altrove!
Era stato il frutto dell’idea geniale di un mastro d’ascia il quale, un tempo lontano, partito da una ridente cittadina della Sicilia, a bordo di un’untru, alla volta della costa calabra, approdò sulle rive della laboriosa Bagnara, dove, in un fatidico giorno di settembre, conobbe la dolce Maria, la madre dei suoi sette figli.
Fu chiamata “la passerella”, dal nome della struttura di ferro installata a prua e, da quel giorno tante altre ne vennero costruite, seppure con successive modifiche.
Viene ricordata, per la pesca al pescespada, nello stretto di Messina e, soprattutto, per avere affrancato, migliaia e migliaia di pescatori, dal massacrante e ancestrale sistema di lavoro che, nel passato, aveva costretto a versare tanto sudore e, a volte, regalato solamente giorni e giorni di sforzi infruttuosi.
A coloro che percorrono queste strade costiere, in primavera o in estate, è ancora possibile vederne alcune, tra quelle rimaste.
Solitarie, fendono le onde e, danno la caccia al pesce spada, anche se in maniera scenografica, munite di antenna per l’avvistatore e passerella (ponte metallico) per il fiocinatore, come una volta, nel pieno rispetto della natura.
Portano l’impronta indelebile della mano “magica” dell’artefice: di Antonino Lombardo, per tutti Ninai.
Oggi, purtroppo, la caccia ha perso il proprio carattere rituale, quell’ombra di romanticismo, per assumere quello ben più pratico di semplice affare commerciale.
Dominano nei mari le spadare a maglie larghe, incubo del Mediterraneo, lunghe chilometri, trascinate dai motopesca o lasciate alla deriva.
Sono un prodotto della tecnologia, dichiarato illegale in gran parte dei paesi.
Questi strumenti, lungi dal contribuire al mantenimento e alla conservazione dell'ecosistema marino, necessario alla salute e alla vita dell’uomo, sono innegabilmente causa di morte e distruzione per molte specie ma, di sicuro, non sono e non saranno mai in grado di distruggere, cancellare dalla mente e dal cuore, quello che ha radici profonde nel tempo lontano dell’infanzia e dei ricordi.
E... questo è un pezzo di storia, quella di un uomo semplice e creativo, una storia vera, quella di mio padre.
I fatti qui narrati appartengono al passato, alcuni nomi sono stati cambiati per opportuna riservatezza.
Sono così, come mi sono stati raccontati dalla viva voce di alcuni dei protagonisti, che appartengono al patrimonio dei miei ricordi più cari.
Gino Lombardo
Pdf della presentazione
Pdf del ricordo "La passerella" di Gino Lombardo