Vi voglio raccontare un episodio, significativo, legato ai miei ricordi d’infanzia, del quale sono stato testimone, avvenuto nel mese di agosto del 1943, in un momento cruciale della storia d'Italia caratterizzata dalla conclusione della seconda catastrofe mondiale.
È una bella pagina di eroismo ignorata dalle cronache; un altro tassello che brilla, come in un mosaico, nel passato del popolo di Limpidi; episodio preceduto da un susseguirsi di altri non meno espressivi in cui i protagonisti sono gli umili, quelli costretti non solo a soffrire la miseria, la fame e le ingiustizie sociali ma anche destinati a essere le vittime sacrificali negli assurdi e sanguinosi scontri armati.
Il 10 luglio a seguito del cannoneggiamento di centinaia di navi e agli attacchi aerei per distruggere i campi di aviazione esistenti in Calabria e Sicilia un’immensa armata delle forze navali anglo-americane (Fig. 1) approdò sulle aree costiere di fronte a Gela.
Il comando italo-tedesco, pur con alcune situazioni di contrasto e di battaglie che costarono la vita a molti militari di ambedue le parti ed a un numero elevato di civili, null’altro potendo opporre contro l’implacabile martellamento di fuoco non riuscendo più a mantenere l’isola, adottò la decisione dell’evacuazione.
Si rivelò questo essere un abbandono rovinoso perché gran parte del materiale bellico cadde nelle mani degli invasori.
In Calabria, per il ripiegamento delle fanterie e dell’armamento motorizzato verso il nord, fu utilizzata, come raccordo con la Statale 18, la camionabile interna denominata “strada provinciale Rosarno - Laureana di Borrello - Dinami - Limpidi - Dasà - S. Angelo di Gerocarne - S. Gregorio D’Ippona - Vibo Valentia”.
Per la prima volta, avvenne il transito delle truppe da Limpidi durato alcuni giorni.
Fu una novità, un evento eccezionale per l’interno del territorio vibonese al quale noi ragazzi, spinti, senza rendercene conto, da una forte curiosità, assistemmo da soli oppure insieme al Parroco Don Falleti; un momento purtroppo sciagurato, inglorioso, da obliare più che ricordare, vissuto con indescrivibile emozione e intimo tormento.
Non scorderò mai quei giovani, privi di qualsiasi soccorso, curvi sotto il peso di un “inutile arredo”, come lo zaino con dentro probabilmente il “niente”, il moschetto e l’elmetto.
Erano gli italiani (Fig. 2), unici appiedati, che con barba e capelli lunghi procedevano uno di seguito all'altro, in gruppi di trenta o più, sul lato destro della carreggiata non asfaltata, guidati da un ufficiale, direzione Vibo Valentia. Molti, al posto della divisa grigio-verde, avevano brandelli non sufficienti nemmeno a coprire le parti intime.
Mi pare di vederlo ancora quel povero ragazzo mentre, mosso da pudore, cercava, facendosi scudo dei compagni, di nascondere allo sguardo di noialtri il suo “posteriore” completamente scoperto e, inoltre, muoversi in modo innaturale, per traverso, strisciando addirittura con le spalle al muro del fabbricato da noi chiamato “ospedaletto”.
Venivano da lontano, camminando prevalentemente di notte, e si trascinavano con fatica.
Le autoblindo, i cingolati, i camion germanici con il carico umano nel cassone e quelli italiani, passavano ininterrottamente alla massima velocità consentita dal tracciato stradale e dal piano viabile, sollevando un enorme polverone, senza curarsi di loro.
Quando scorrono nella mente, come fotogrammi di un film, le immagini, che i miei occhi d'adolescente ebbero la ventura di vedere, non riesco, ancora dopo tanti anni, a trattenere un moto di rabbia.
Il solo ricordo del trauma subito nel dover costatare una amara realtà ben diversa dalla propaganda persistente, completamente bugiarda, propinataci enfaticamente nelle scuole: «Le nostre legioni marciano cantando, vittoriose dappertutto; il trionfo del tricolore è prossimo», mi provoca, oggi come allora, una forte sensazione di disgusto.
Con un interesse ben diverso dal nostro, ci facevano compagnia, quasi in permanenza, gli abitanti di età avanzata.
Dai congiunti, chiamati a combattere sulle aspre montagne greche e albanesi o nelle sabbie infuocate del deserto libico-egiziano (Fig. 3) o altrove, forse prigionieri, dispersi o addirittura morti, da parecchio tempo non ricevevano più lettere.
In ansia spasmodica, illudendosi di poter venire a conoscenza di qualche informazione, si avvicinavano a quegli uomini in fila chiedendo, con atteggiamento supplichevole: «vidistivu ‘ncunu chi si chiama...?» (avete incontrato uno che si chiama...?), ottenendo semplicemente sguardi pietosi e spesso un roteare di occhi lucidi.
Anche la vedova Maria Grazia Giofrè, alta di statura, dal portamento diritto e dal viso magro, venne sulla strada sperando di ottenere una risposta confortante alle sue domande, senza sapere che nel Nord-Africa gli inglesi avevano già fatto prigioniero il figlio Diego.
Come in un sogno mi ricompare l’immagine appannata di un’esile figura femminile nell’atto di seguire con sguardo attento quelle persone dall’andatura affaticata e di scrutare i loro volti dimessi uno a uno nell’illusione di veder celato, sotto la barba incolta di qualcuno, quello dello sposo.
Nell’ultima sua missiva, pervenutale nel dicembre 1941, fu possibile leggere soltanto poche parole: “…(partenza ignota), celebra una S. Messa in onore della Madonna del Carmelo…”, poiché il resto risultava cancellato dalla censura militare.
L’infelice madre, inconsapevole della fine amara riservata dal destino beffardo al ventinovenne artigliere Francesco Albano, continuava a nutrire nel cuore la speranza di rivederlo vivo.
Speranza vana, non sarebbe ritornato mai più, i suoi tre bambini erano ormai orfani!
Nessuno le aveva comunicato che la motonave Neptunia, sulla quale si trovava imbarcato insieme a migliaia di commilitoni, tutti destinati al fronte libico, silurata da un sommergibile inglese il 18 settembre 1941, mentre navigava nelle acque al largo di Misurata, a poche miglia da Tripoli, colando a picco aveva trascinato lui e altre poche centinaia di naufraghi, tra le invocazioni di aiuto e il fragore dei marosi, negli abissi marini del Mediterraneo, forse in pasto a voraci squali bianchi (Fig. 4).
Sovente, al mattino prima del sorgere del sole, le urla disperate e il lugubre rintocco delle campane a morto che laceravano l’aria, annunciavano alla comunità l'aver pagato un altro tributo di sangue.
Regnavano la paura, il dubbio e il dolore; il sorriso era scomparso dai volti delle persone che ammutolite, incontrandosi, si guardavano con occhi smarriti, sospettose che l’una potesse nascondere all’altra qualche ferale segreto.
Si respirava un'aria pesante, come si fosse sotto una cappa di piombo, contrastante con l’allegro andirivieni delle rondini e l’innocente vociare dei fanciulli nelle vie interne del borgo.
Un pomeriggio, quando sembrava che la giornata fosse trascorsa senza imprevisti, un aeroplano proveniente da nord, in volo radente, sbucò da dietro gli alberi di ulivo e sorvolò le case mitragliando.
A parte il panico tra i locali e le colonne in movimento, non si lamentarono danni; a tarda sera però, si appurò che, nell’incursione, tra i vicini paesi di Melicuccà e Dinami, era rimasto ucciso un certo numero degli occupanti di un automezzo tedesco, centrato in pieno.
Ciancio Rosa, che viveva sin dalla nascita nella zona montuosa in contrada Camera, venne a sapere del passaggio dei “soldati provenienti dal fronte”; possedeva una misera dimora dalle pareti costruite con blocchi di fango, circondata da alberi di leccio, e un lembo d'arido terreno: questo era tutto il suo mondo!
Dal giorno in cui negli Anni Venti il marito partì per cercare fortuna nelle lontane plaghe della sconfinata Argentina, facendo perdere, dopo qualche anno, ogni traccia di sé e lasciandola con due creature da allevare, ha dovuto sgobbare da sola per procurare il minimo indispensabile a sfamare sé stessa e i suoi figli.
Mai trascurando di prestar loro la dovuta attenzione, si è sottoposta alle fatiche più sfibranti.
Sempre a piedi nudi, nella canicola o nel freddo invernale, ha portato al pascolo il modesto gregge di capre e allevato qualche maiale; si è spaccata la schiena e spellate le mani, con la zappa, per “scorticare” il magro pezzo di terra senza tuttavia rifiutare di zappare anche quello di altri per racimolare qualche lira (Fig. 5).
La montanara, battagliando, dall’alba al tramonto, contro innumerevoli avversità, raggiunse l'obiettivo di vedere i due fanciulli varcare la soglia della giovinezza, forti e robusti, ricevendo, in tal modo, il giusto premio che la ripagò dei patimenti e la incoraggiò a fare progetti.
La sua fu un’amara delusione, una gioia effimera.
Vivendo in modo completamente avulso da ciò che la circondava, concentrata nell’estenuante diuturna sfida alla fame, nemico di sempre, poco o nulla poteva sapere degli sconvolgimenti in atto né che forze estranee al suo piccolo mondo avessero la facoltà di disporre arbitrariamente della vita altrui.
Si accorse della realtà a settembre del 1940, nel momento in cui i Carabinieri, condotti dalla Guardia Comunale, si recarono in montagna, con la “cartolina di precetto” e intimarono al primogenito, nemmeno ventenne, di partire “con immediatezza”, assieme a tanti altri coetanei, per “servire la patria in armi”.
A Rosa Ciancio sarà venuto il desiderio di ribellarsi, di gridare contro il sopruso; ma l’atteggiamento autoritario e il cipiglio austero dei tre tutori della legge l’avranno intimorita e convinta a trattenersi.
La privazione improvvisa del braccio più valido in famiglia la fece piombare nella disperazione, che divenne attesa angosciosa di notizie.
L’ultima, fattale pervenire tramite gli stessi Carabinieri, diceva laconicamente: “partito per il fronte”.
Per lei, donna povera e analfabeta, con la parola “fronte” era indicata la località indefinita, lontana, in cui il figlio stava combattendo. Pertanto, non appena apprese del passaggio dei fanti, con l’idea che provenissero da quel punto e potessero averlo incontrato e scambiato qualche parola scese, portando quel poco di cui disponeva come dono, intenzionata a rivolgere la stessa domanda delle altre madri.
La sventurata ignorava che, il suo biondo e robusto Raffaele, nel fiore degli anni, era già stato immolato sull’altare della follia umana nelle gelide nevi della sterminata steppa nella Russia Sovietica (Fig. 6).
La situazione spinse finanche a un tentativo di diserzione.
Pietro Galati detto “Pietro lu palagrinu”, assente da casa, dal 1940, non resistette al desiderio di abbracciare la compagna, Muratore Maria detta “Maria Maciò”, e i propri due piccoli.
Approfittando della momentanea distrazione del capo, si allontanò, corse verso la propria abitazione situata dirimpetto alla mia e, nonostante sapesse quale sarebbe stata la condanna per abbandono della squadra di appartenenza, chiese ai miei se poteva nascondersi nel nostro scantinato.
Il nascondiglio si rivelò essere inutile perché, se non ricordo male, un sottotenente, accompagnato da altri militari, riuscì a scovarlo.
Dopo averlo preso per un braccio e fatto finta di dargli un calcio nel sedere, lo spinse verso il punto da cui era venuto, dicendogli: «Ti dovrei denunciare e tu sai bene qual è la pena per simili reati ma ringrazia il cielo e i tuoi. Cammina!».
La scena dei due ragazzini in lacrime, Antonio e Ferdinando, e della moglie, inginocchiata ai piedi dell’ufficiale, mi è rimasta impressa perché fummo indotti, io e le mie sorelle, ad unirci al pianto.
Pietro Galati, marito e padre esemplare, giovane buono e onesto lavoratore, non si sarebbe
mai macchiato di una colpa tanto infamante se non avesse avuto il pieno convincimento che le speranze di salvezza per il suolo patrio erano del tutto svanite.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, riabbracciò tutti e, quando si aprì l’emigrazione, partirono insieme per l'Argentina.
Torno a quei poveri soldati.
Entrando esausti in paese, alla vista del getto d'acqua che sgorgava, e sgorga ancora, dal tubo di scarico del troppo pieno serbatoio (posto a monte della nicchia con il quadro della Madonnina, e, più avanti, di quello erogato dal cannello della fontana pubblica, situata sul lato sinistro della curva stradale nel punto in cui si trova adesso) incapaci di proseguire facevano sosta e si rinfrescavano.
La piazzetta nell’anno 1943 non esisteva, tutta la superficie era occupata da un rudere, cosicché si abbandonavano dovunque ci fosse uno spazio libero.
In quel momento donne, ragazzi e uomini si avvicinavano per porgere loro qualche cosa da mangiare.
C’era ben poco da dare perché il governo, sia per controllare la produzione, il commercio e il consumo dei generi alimentari, sia per approvvigionare di vettovaglie le forze armate, aveva imposto la disciplina del razionamento di quelli di prima necessità.
Gli agricoltori avevano l’obbligo della denuncia (agli uffici comunali, pena forti sanzioni per gli inadempienti) della quantità di frutti come il grano (Fig. 7), le patate, il vino, l’olio etc., e della successiva consegna al cosiddetto “ammasso”.
In pratica, il prodotto veniva requisito da certe organizzazioni le quali, dopo, come si diceva, ne facevano senza eccessivo scrupolo uso in modo del tutto spregiudicato.
Distribuivano alle famiglie solo una minima parte e trattenevano quella più consistente che, venduta di contrabbando, serviva a impinguare le loro tasche. L'insano provvedimento costrinse soprattutto il proletariato, già sottoposto a enormi sacrifici per via della cattiva alimentazione, a ridurre ulteriormente il magro pasto giornaliero.
Nondimeno, la gente di Limpidi, consapevole di compiere un’azione di umana solidarietà, si privava di altro cibo per consegnarlo a quei miseri aventi in quel momento maggiore necessità.
Metteva a disposizione ceste colme di pomodori, peperoni, fichi, uva e persino fichi d’india; addirittura qualcuno, togliendole di bocca ai propri figlioli, portava delle uova sode.
Nelle famiglie povere, in modo particolare a quei tempi, queste, come pure il pane di grano “pani jiancu (pane bianco)”, rappresentavano un alimento prelibato da somministrare solo in casi eccezionali, come ricostituente per i bambini o medicinale per gli ammalati.
Vidi un vecchio, malfermo sulle gambe, dal volto arso dal sole e dalle dita contorte e irrigidite, approntare un pasto alla vista dei passanti, con un pane di mais, “pani di pizzata”, una bottiglia di vino e una “toppa di carne salata” (pezzo di pancetta o guanciale di maiale salata e pepata), fatta affettare sul posto; il maggiore degli unici due nipoti, il primo del luogo a essere chiamato alle armi, non dava segnali di se stesso da diversi mesi.
Nonostante la povertà in cui si viveva, l’innata compassione spingeva tutti a partecipare a una commovente gara d'altruismo.
Verso la fine di agosto le “pietose processioni” diventarono meno frequenti. L’ultimo drappello si fermò il tempo necessario per dissetarsi e riempire le borracce.
Continuarono invece ad arrivare convogli motorizzati autocarri, carri armati e cannoni semoventi, mentre i “sidecar” tedeschi, con ufficiale a bordo facevano la spola.
I flussi di veicoli stavano per esaurirsi allorché, caso unico, apparvero sei militari tedeschi a piedi, ma con divise ed equipaggiamento più in ordine di quelle degli italiani; senza alcun dubbio, avevano intrapreso il viaggio partendo da una località non molto distante.
Portavano, agganciata alla cintura di cuoio stretta alla vita sulla giubba, una mazza o meglio “un pistone” simile a quello usato in casa dalle massaie per triturare il sale nel mortaio; veniva adoperato per lanciare il più lontano possibile le bombe a mano.
Si soffermarono anch'essi alla fontana per dissetarsi e riempire le borracce.
Ripresero il cammino, ma, giunti in periferia, alla prima curva, probabilmente, pensarono fosse meglio prendere fiato e rinfrancarsi un poco.
Difatti entrati nella campagna, saliti sul primo gradone a destra nell'orto di Muratore Francesco detto “Ciccu di Gianna”, e liberate le spalle dal peso, si sedettero all'ombra della pianta d'ulivo.
Anche da loro “poveri figghji di mamma (poveri figli di mamma)”, quasi immediatamente, ci fu chi andò con ortaggi, olive in salamoia e pane nero. Vincenzo Minniti detto “Vicienzu vavi”, si fece avanti mostrando il paniere con i “viveri”, sebbene nessuno lo avesse informato della prigionia del figlio Michele nei campi di concentramento inglesi a Tobruk (Fig. 8).
Il più giovane adocchiò un bel peperone vermiglio, con il fuoco dentro, come quelli mangiati dai braccianti agricoli per colazione, conditi con un pizzico di sale e una lacrima d'olio.
Lo prese e, chi lo sa, immaginando fosse un succoso frutto, gli diede un morso.
Un urlo animalesco improvvisamente gelò i presenti.
Con gli occhi fuori dalle orbite, sputando continuamente il pezzo in bocca, pensando, forse, a un’azione criminale, si avventò sul moschetto posato a fianco, mise la pallottola in canna e, sbraitando a voce alta parole incomprensibili, lo puntò contro il petto dell'incolpevole “Vicienzu”.
Noi ragazzi, esterrefatti, ci stringemmo a Don Falleti, mentre gli altri, rimasti come paralizzati, non si capacitavano di cosa stesse succedendo.
Al povero Minniti, bianco in volto, cadde dalle labbra l’immancabile pipa di creta.
Con il cuore in gola, tutti aspettavamo lo sparo. Ma inaspettatamente, un compaesano, intuendo quale potesse essere l’epilogo, senza esitare, fece un balzo frapponendosi tra l’arma pronta a far fuoco e il bersaglio.
Con le braccia alzate, pronunciando parole, in lingua tedesca che nessuno di noi poteva comprendere, raccolse uno dei peperoni e lo addentò per far capire che non si era trattato di attentato alla vita ma era soltanto parte del cibo quotidiano dei contadini locali.
Continuò a discorrere fino a che non vide l’arma abbassata e sul volto dei sei apparire un abbozzo di sorriso.
Tornò la calma, ma lo spavento fu grande e ci volle del tempo perché ci tranquillizzassimo.
Suppongo che anche i tedeschi, in imbarazzo, stessero riflettendo sulla tragedia da loro stessi inconsciamente sfiorata.
La figura centrale, di chi ha svolto il ruolo primario nella vicenda, fu un quarantasettenne duramente provato da un lungo e massacrante periodo di lavoro affrontato, con stoicismo, nell’ambiente convulso della cosmopolita New York dei primi Anni Venti. Era padre di cinque figli: il maggiore dei maschi, un giovanotto dotato di coraggio, esuberante e dinamico, per fortuna in quella circostanza assente, non aveva l’età per fare il militare.
Egli, un impavido sergente maggiore di fanteria, veterano del primo conflitto mondiale, del quale aveva vissuto gli orrori affrontando il nemico faccia a faccia in prima linea, nell’ottobre del 1917, con il piombo rovente nelle carni, fu preso prigioniero e internato in un campo di concentramento austroungarico.
Fu durante la prigionia che riuscì ad apprendere la lingua tedesca che anni dopo provvidenzialmente gli servì a salvare un innocente da morte certa.
La sua presenza era assidua perché lo muoveva un solo desiderio: portare ai giovani in ritirata qualche piccolo aiuto, il sostegno che a lui era mancato quando, in un luogo di deportazione circondato da un altissimo doppio recinto di filo spinato sferzato costantemente da un vento gelido, lontano dalla terra degli avi, angosciato e sanguinante, afflitto dalla sofferenza fisica e morale, si è trovato solo.
I sei soldati, intanto, rimessisi lo zaino e tutto il resto addosso e, scesi dal gradone, si accingevano a riprendere il cammino.
Guardarono Vincenzo tremante, imbambolato e madido di sudore, come per dirgli: “Ti chiediamo scusa”; fecero tutti un cenno di saluto molto eloquente con la mano destra verso l'autore del gesto temerario e coraggioso, e si avviarono verso il loro destino.
Immediatamente si propagò la voce del miracolo operato per intercessione di un santo.
Quel generoso soldato dalla forte fibra, sopravvissuto al carnaio Grande Guerra e alla brutale prigionia, degna figura di uomo e di cittadino, nato nel 1896, il 16 luglio del 1961, non resistette all’ultimo terribile attacco sferrato da un invisibile nemico contro il quale aveva lottato strenuamente per mesi.
Riposa lassù nel cimitero del diletto villaggio accanto alla moglie, madre dei suoi figli.
Si chiamava Santo di nome, Natale di cognome (Fig. 9).
Limpidi, 24 agosto 2015
Pdf del ricordo "Un piccolo miracolo a Limpidi (Seconda versione)" di Ubaldo Dorè