Allo scoccare della mezzanotte non mancava molto e noi stavamo per strada a passeggiare, scherzare e ridere.
Alle ore sei del mattino seguente sarebbe transitato da Limpidi l'autobus di linea della ditta Bruno Genco che partiva da Dinami con destinazione Vibo Valentia: avremmo dovuto prenderlo per tornare ai nostri studi perché le vacanze pasquali erano terminate.
Eravamo un gruppetto, tra studenti e non, di una decina o poco più.
Sicuramente, a quell'ora a Dasà, gli organizzatori erano già in movimento per allestire la tradizionale festa dell'"Affruntata".
Non ricordo chi fra noi, mentre camminavamo - tra il serio e il faceto - fece questa considerazione: "ragazzi lunedì di Pasqua è ormai passato e, diversamente dagli altri anni, non abbiamo festeggiato la pasquetta, oggi tutti gli altri giovanotti del luogo si sono divertiti approfittando della giornata quasi estiva mentre noi, … invece...!"
Questa inaspettata battuta fece un certo effetto, perché rimanemmo tutti pensierosi e rammaricati a guardarci l'un l'altro.
Detto con sincerità, in quegli anni non è che ci venissero riservati chissà quali divertimenti, le disponibilità economiche erano limitate tanto che il più delle volte i divertimenti nel tempo libero ce li inventavamo.
Nel paese c'era molto affiatamento tra di noi. Non esistevano distanze tra studenti, professionisti, artigiani e contadini cosicché quando c'era un'opportunità ci si divertiva tutti insieme.
Una giornata da trascorrere senza particolari pretese tra amici, compagni di scuola e di infanzia, a far baldoria in un luogo fuori dal paese era sempre un'occasione da cogliere in qualsiasi momento. Un altro disse: "perché non la facciamo domani martedì? Il tempo si presenta bello, potremmo salire in montagna, ci divertiremmo un mondo!" Compare Graziano (Graziano Schiavello), che degli studenti era il più anziano, a questa domanda intervenne riprendendoci con tono autoritario e perentorio: "le feste sono terminate e domattina si riparte per Vibo Valentia anzi, siccome è già tardi, è bene che andiamo tutti a letto!"
Egli, non più giovanotto, ci controllava con quel senso di responsabilità che hanno gli adulti e ogni sua parola per noi era un ordine.
Era un reduce di guerra, classe 1919, ex sergente maggiore, aveva fatto anche la prigionia nei campi di concentramento inglesi.
A giudizio di un suo vecchio maestro, fin dalla prima infanzia aveva dimostrato di essere dotato di una straordinaria intelligenza e di possedere un elevato grado di apprendimento. L'attaccamento allo studio, fin dal primo anno delle elementari, gli aveva procurato diversi encomi da parte delle autorità scolastiche dell'epoca.
Aveva una volontà di ferro e quando iniziava un lavoro non lo lasciava se non dopo averlo completato così come lo voleva lui.
Le condizioni economiche della sua famiglia non erano molto floride, penultimo di otto figli, come quasi tutti i giovani limpidesi dell'epoca venne avviato al lavoro dei campi.
Ci fu un periodo in cui mio padre era stato amministratore in una azienda agricola della zona e, mia zia diceva che, era talmente entusiasta del suo "comparuccio" (poiché lo aveva cresimato) al punto tale da volerlo come suo collaboratore quando era ancora quindicenne.
Poi, nel 1937, mio padre partì per l'Eritrea, allora Africa Orientale Italiana, e lui rimase nell'azienda (in cui lavorava anche il suo genitore) fino allo scoppio della seconda guerra mondiale quando fu costretto a partire sotto le armi.
Alla fine delle ostilità, rientrato dalla prigionia, senza preoccuparsi dell'età, decise di frequentare l'Istituto Tecnico Commerciale per conseguire il diploma di ragioniere.
Sostenne gli esami, il famoso "salto" per l'ammissione al quarto anno, superandoli brillantemente e nell'anno scolastico 1947-48 si stabilì a Vibo Valentia per frequentare la scuola ivi ubicata.
Ovviamente era il più anziano dell'Istituto, conosciutissimo da tutti gli studenti per la sua bravura e serietà: perfino i suoi professori lo trattavano con rispetto.
E' stato per questo motivo che quella notte sulla strada di Limpidi ci impartì l'ordine di andare a dormire, perché, a suo giudizio, non bisognava perdere un solo giorno di lezioni.
Egli sapeva che la sua assenza non sarebbe passata inosservata né dai compagni né dai professori: eravamo nel 1949 e a luglio doveva sostenere la prova finale per il conseguimento del diploma.
I nostri genitori, come solitamente si faceva in quel periodo, ci avevano "raccomandato" a lui, e pertanto eravamo sotto il suo controllo, in altre parole era il nostro "tutore".
Quella notte però, dopo un susseguirsi di sguardi, un altro ragazzo incalzò: "dai Graziano… finora siamo stati sempre presenti, andiamo … non essere rigido …, questo cielo stellato annuncia per domani una bella giornata e ci invita a passare un martedì allegro!"
Il discorso fu pure assecondato da quasi tutti i presenti, fino a quando non ci accorgemmo che era diventato pensieroso e un poco più disponibile.
Intervenne poi Ciccio di Marina e in coro anche tutti gli altri.
Per ultimo parlò mio padre, il più anziano della comitiva. Egli, da poco rimpatriato dagli inglesi che lo avevano trattenuto in servizio civile ad Asmara non appena la occuparono militarmente, si trovava a Limpidi in attesa di ricevere l'assegnazione della nuova sede di lavoro. Quando intervenne, con tono molto pacato come era suo costume, si espresse in favore della scampagnata precisando che per lui un'occasione del genere non si sarebbe mai più presentata.
Del gruppo facevano parte anche i non studenti: Ciccio Pitisano (Cicciu lu blaccu), Ciccio Crispo (Cicciu lu carvunaru), Domenico Natale (Micu vaianella) che da lì a poco sarebbe partito per l'Argentina, e qualche altro di cui non ricordo il nome.
Eravamo tutti limpidesi ad eccezione di Ciccio Crispo che era un giovane sui 27 o 28 anni originario di Gerocarne.
Non alto di statura, era di robusta corporatura e molto muscoloso. Aveva un viso bruno, molto aperto e sempre sorridente. Di mestiere faceva il tagliaboschi-carbonaio, lavoro questo che gli consentiva di vivere. Non disdegnava però il lavoro di contadino, (valeva a dire di lavorare la terra con la zappa), che svolgeva con molta perizia.
Proprio per questa sua disponibilità e capacità era molto richiesto. Aveva sposato una contadina di Limpidi, una certa Teresa, con la quale vivevano in perfetta armonia, anche lei giornaliera di campagna. Non possedevano nulla, eccetto la modestissima casetta di abitazione e quindi si arrangiavano con il guadagno giornaliero e anche con qualche introito extra proveniente dalla vendita del carbone. Non erano nati figli dalla coppia e, in considerazione dell'età che avanzava, chiesero ed ottennero di poter allevare una bambina di nome Duilia, figlia quest'ultima di un giovane "scansafatiche" soprannominato "fujinu" e di una certa Teresa Cartisano. Ciccio Crispo era persona educata e sapeva stare molto bene nella compagnia; noi lo stimavamo ed egli faceva di tutto per meritarsela questa stima. D'altro canto quelli che non vi sapevano stare venivano emarginati e allontanati senza appello.
Tornando a quella notte, dopo le parole di mio padre, compare Graziano si arrese e manifestò la sua disponibilità.
Un urlo di giubilo si levò da parte di tutti e per fortuna che eravamo fuori paese se no avremmo svegliato chissà quante persone.
Poi arrivò un ordine: "ognuno di voi vada a casa e prepari: pane, vino, salsicce, formaggio, soppressate, olive in salamoia ecc… .. Non dimentichi, qualcuno, di portare anche una bottiglietta d'olio e anche una di aceto, in una sola parola più trovate e più mettete nello zaino, anche piatti, forchette e coltelli!"
Il povero Ciccio Crispo rispose: "io posso portare solo un po' di "pizzata", non ho altro!"
Gli risposero mio padre, compare Graziano e Ciccio di Marina: "non ti devi preoccupare di nulla, ti diremo poi quello che devi portare!"
In un attimo la compagnia si sciolse e ognuno si avviò verso casa perché si era fatto davvero tardi.
Naturalmente svegliammo tutti i nostri familiari perché in pratica sono stati loro a riempirci gli zaini e altri contenitori.
Per strada rimasero, per poco tempo ancora, tutti i più anziani a parlottare tra loro.
Non lo so se i miei amici quella notte siano riusciti a "chiudere occhio" io no di certo perché, non era ancora sorta l'alba quando mi alzai per andare a svegliare mio padre.
Egli era già in piedi, e pronto per la partenza.
Dovevamo incontrarci all'inizio della strada che sale in montagna, "la strata di lu carvariu", luogo ove oggi c'è il quadro della Madonna.
Il primo ad arrivare è stato Ciccio Crispo che portava appresso gli attrezzi del mestiere: una accetta grande e una piccola, una mannaia e una roncola che luccicavano come i ferri del chirurgo tanto erano affilati. Portava anche un seghetto, tipico dei carbonai, e un buon coltello, come poi si vide anch'esso affilato, che teneva nella tasca dei pantaloni di fustagno.
Noi giovanotti non ci eravamo resi conto a che cosa servisse quell'"armamentario" ma lo capimmo un paio d'ore più tardi. Ad uno ad uno intanto arrivarono tutti gli altri, chi con lo zaino, chi con un sacco di tela sulla spalle. Le damigianette, le impagliate e i fiaschi pieni di vino li portavamo a mano.
Ciccio di Marina spuntò con la "viertula" (la bisaccia) ed erano rigonfi sia il sacco anteriore che quello posteriore.
Nessuno aveva le mani o le spalle libere perché tutti portavamo qualche cosa, chitarra compresa.
Avevano stabilito che bisognava andare a "Cornaria" nello spiazzo antistante l'edificio di presa della sorgente che alimenta l'acquedotto di Limpidi.
Quello era il nostro luogo ideale per come avevano programmato gli anziani. Eravamo giovanotti e qualsiasi posto sarebbe andato bene pur di trascorrere una giornata in piena libertà e in compagnia!
Per arrivarci non c'era altra strada da percorrere se non quella che: partendo da Limpidi saliva al "Calvario" e da lì proseguiva verso le contrade "Benaggia", "Sansino", "Camera", "Fellari" per poi scendere a "Cornaria".
Veniva chiamata "la petrera" perché in qualche tratto, compreso tra Limpidi e la contrada "Sansino", aveva il piano viario in pietre sistemate a secco mentre il resto era in terra battuta.
C'è da dire che in inverno le acque piovane dissestavano spesso il piano stradale creando fossati che poi il comune doveva provvedere a risistemare.
I contadini-pastori (massari) che abitavano nelle case sparse delle contrade montane "Camera", "Camerino", "Fellari", "Nissì", "Pardalusa" ecc., si dovevano servire di questo antico tracciato per raggiungere, sempre a piedi o con il carro trainato dai buoi oppure con l'asino, il centro abitato di Limpidi che era la sede del medico della seconda condotta del comune, dove c'è la chiesa parrocchiale e il cimitero o anche per proseguire per Acquaro.
Per arrivare a "Sansino" dovevamo quasi "arrampicarci" tanto era ripido il tracciato, ma con l'allegria che avevamo in corpo e la gioventù non ci avrebbe fatto ombra nemmeno l'Everest!
Conoscendo il percorso e sapendo quale era la meta partimmo lasciandoci dietro tutti gli anziani.
Lo spiazzo di "Cornaria" ci accolse quando ancora il sole era dietro il boschetto e i suoi raggi, filtrando attraverso il fitto fogliame, creavano macchie di luce sul prato già colorato dai fiorellini d'aprile, che era uno spettacolo ammirare.
Era il segno del prepotente risveglio della natura!
Gli faceva da cornice, da tre lati, il boschetto e dall'altro un terreno coltivato ad ortaggi sistemato a piccoli gradoni che salivano fino alla prima casetta di "Fellari" di proprietà di Ciancio Giuseppe (cumpari Pieppi di la carra).
Era delimitato dal terreno coltivato da un piccolo fosso dentro il quale scorreva l'acqua limpida e purissima che sgorgava da un tubo dell'opera di presa: il troppo pieno che defluiva dalla sorgente.
In attesa che arrivasse il resto della comitiva ci liberammo del carico e, per non perdere tempo furono tirati fuori i birilli con la boccia e anche un mazzo di carte da gioco napoletane.
Era stata portata anche una grande coperta, un poco vecchiotta, tessuta interamente al telaio "della nonna", chiamata "schiavina", molto resistente, che fu immediatamente stesa sul prato.
Un gruppetto scelse il posto dove sistemare i birilli e nel giubilo più totale iniziò la sfida.
Qualcuno pensò invece di mettere in pace lo stomaco con una colazione.
Potevano essere le otto e il sole illuminava completamente il prato.
Finalmente vedemmo spuntare gli anziani.
Ciccio Crispo li precedeva portandosi dietro, legato ad una corda, un agnellone abbastanza sviluppato.
"E questo ovino a che cosa serve?" Domandammo!
Ciccio Crispo rispose: "per cucinarlo allo spiedo!"
Disse il primo: "a me la carne di pecora non piace perché ha un cattivo odore!" Poi il secondo: "se si fosse trattato di un capretto o magari di un agnellino … allora …!"
Tagliò corto compare Graziano: "vuol dire che la mangeremo noi e quelli a cui piace!" Troncando così ogni ulteriore discorso.
La cima della corda che teneva la bestia fu legata a un rametto e il simpatico Ciccio Crispo, munito dei suoi attrezzi, si addentrò tra gli alberi del bosco.
Sentivamo i colpi dell'accetta: aveva iniziato a tagliare legna.
Ritornò dopo una buona mezz'ora trascinando fasci di rami secchi. Con l'aiuto della sega li ridusse a tronchetti e continuò a segarne altri fino a quando non ne ebbe fatto un bel mucchio sufficiente, a suo giudizio, allo scopo. Infine, prese la roncola e iniziò a eliminare i rametti dal fusto di una giovane pianta secca, diritta e alquanto lunga. La pulì ben bene e tolse anche la corteccia.
Capimmo che quello doveva servire da spiedo!
Con un altro tronco creò il gancio al quale doveva essere appesa l'indifesa vittima per essere scuoiata e poi anche due forcelle che dovevano sostenere lo spiedo per preparare l'arrosto.
Era un esperto Ciccio Crispo perché il girarrosto era già fatto!
Tutto era ormai pronto per il sacrificio dell'agnellone!
Si accorsero però che mancava qualcosa di cui non si poteva fare a meno. Non avevamo portato un recipiente dentro il quale dovevano essere messe le interiora con il fegato ecc. e mancava pure una capiente teglia per la cottura delle frattaglie "zanieni" con tutto il resto.
Arrivò l'ordine: "andate alla casa di comare Filomena (moglie di Ciancio Giuseppe) e chiedete se gentilmente ci fornisce un secchio (catu), una bacinella (tacciu), un vassoio (limba) e la teglia (tejia) più grande che ha in casa".
Io sono stato il primo a precipitarmi, anche perché non volevo assistere alla macellazione di quel povero animale, e assieme ad altri ci recammo a "Fellari" alla casa di comare Filomena, che distava cento metri circa.
Ci accolse molto gentilmente: era molto nota per le buone maniere e addirittura si dimostrò disponibile a portare lei direttamente tutto l'occorrente. Dopo averla ringraziata e preso il materiale, con la promessa che tutto sarebbe stato riportato a fine giornata, facemmo ritorno a "Cornaria".
Al nostro arrivo l'agnello era già appeso al gancio, vicino al fossato dove scorreva l'acqua, già scuoiato. Assistito da mio padre, da Ciccio di Marina e da qualche altro, compare Graziano, con le maniche della camicia rimboccate, si accingeva con il coltello a completare il lavoro.
Noi, posati per terra i recipienti, pensammo di allontanarci fin dove era stata stesa la coperta, per lasciarli continuare indisturbati.
Sembrava un laboratorio perché ciascuno di loro sapeva ormai quello che doveva fare.
Il bravo Ciccio Crispo aveva già scelto il posto dove sistemare la legna alla quale dopo poco, da esperto carbonaio, appiccò fuoco. In breve tempo tutta quella catasta diventò brace ardente senza un solo filo di fumo. Prese lo spiedo e lo passò diverse volte sul fuoco per farlo bruciacchiare. Era quello evidentemente il sistema che si adottava. Conficcò ai lati di quel grande "barbecue" le due forcelle cosicché tutto era pronto per la fase finale.
Andò anche alla ricerca di quattro pietre per farne il focolare sul quale poggiare la teglia e le trovò. Gli zaini, i sacchi, la "viertula" furono intanto svuotati e il contenuto posato sulle tovaglie.
Pane, vino, formaggi, salami, uova sode ecc.. erano già pronti per il pranzo e spuntò fuori anche un dolce fatto in casa.
L'agnello allo spiedo intanto era stato messo sulla brace e gli anziani a turno lo spruzzavano con il "salmoriglio", sapientemente già preparato, mentre Ciccio Crispo lo faceva girare lentamente per ottenere una cottura uniforme.
Mancava poco a mezzogiorno, tanto segnava la patacca di mio padre, e la fame incominciava a farsi sentire. Un pezzetto di pane con una fetta di salame accompagnati da un bicchiere di vino li portavamo ogni tanto agli addetti alla cottura.
Il primo ad essere servito era sempre Ciccio Crispo, il più attivo che non pronunciava una sola parola, poi a turno anche gli altri.
L'odore di arrosto intanto si diffondeva per l'aria e faceva venire l'acquolina in bocca. Anche i cani delle mandrie vicine avevano annusato qualcosa e si erano fatti vedere, ogni tanto dovevamo allontanarli gettando qualche pezzo di pane o di pelliccia di salame per tenerli lontani. Ma dietro di loro venne, poco dopo, anche il giovane Bruno, a tutti ben noto, figlio di "cumpari Pieppi e di cummari Filomena" il quale educatamente salutò ed augurò un buon divertimento stando ad una certa distanza. Fu invitato ad avvicinarsi e gli fu offerto un bicchiere di vino con una fettina di soppressata che accettò volentieri.
Dopo avere di nuovo salutato stava per andarsene, ma qualcuno lo invitò ad unirsi alla compagnia.
C'era da mangiare e da bere per "un reggimento di soldati" e poi Bruno, nostro coetaneo, era un amico che aveva fatto le elementari a Limpidi, perché in quelle contrade allora non c'erano le scuole, e frequentava il paese tutte le domeniche e le feste.
Chiese permesso e si allontanò. Ritornò da casa portando un grosso "capicollo" e rimase con noi.
L'agnellone era ormai cotto e il buon odore aveva stuzzicato anche l'appetito a quelli che avevano manifestato la loro contrarietà a mangiare la carne di pecora.
Fu sezionato e messo nel capiente vassoio. C'erano anche i piatti, le forchette e i coltelli ma poiché il buon Dio ci aveva dotato di denti affilati non c'era bisogno di posate.
Ancora oggi, a distanza di tanti anni, quando ci ripenso mi viene l'acquolina in bocca. Non rimase che una manciata di ossa per i cani!
Altro che cattivo odore!
Ma non finì con la carne perché poi arrivarono le frattaglie che nel frattempo si erano cotte sul focolare preparato dal buon Ciccio Crispo.
Le abbondanti libagioni avevano aumentato notevolmente la nostra allegria e il buonumore. "Ancora un bicchiere..! Vediamo come è il vino tuo..! Saggiamo il capicollo di Bruno… !" E si continuava a mangiare e bere.
Si udirono le vibrazioni delle corde della chitarra e un canto calabrese.
Era un canto e un suono melodioso!
Domenico Natale sapeva suonare e aveva anche una bella voce! A lui si unì il coro di altre voci. Ciccio Crispo tirò fuori di tasca un'armonica a bocca e con quella si mise subito anche lui a suonare seguendo il ritmo della chitarra. Poi Bruno, anche lui allegro, si alzò e invitò Ciccio Crispo ad accompagnarlo nel ballo tipico della gente di montagna.
Si fece un circolo (si fece rota) e a turno, nel centro, si esibirono quasi tutti.
Io veramente mi sentivo talmente sazio che preferì starmene sdraiato.
Le risate e i battimani continui avevano attratto l'attenzione di altri abitanti delle limitrofe contrade che si affacciarono e si creò così un bel gruppo di persone.
Anche a loro fu offerto del vino e di quello che c'era ancora da mangiare.
Ogni tanto venivano la ragazze delle case vicine con le loro "giarrette di terracotta smaltate" trasportate sulla testa e con le brocche per attingere acqua dal tubo della sorgente.
Erano sorridenti, guardavano con curiosità quell'insolito spettacolo e frastuono, si intrattenevano il tempo necessario per riempire i recipienti, salutavano e poi tornavano alle loro case. Il tempo era trascorso velocemente e il gioco dei birilli e delle carte passò in subordine. Il sole aveva iniziato il suo tramonto e nùgoli di fringuelli, che venivano dalla valle, con un cinguettìo assordante si tuffavano nel verde del bosco per passare la notte.
Era il segnale che anche noi dovevamo rientrare alle nostre case.
Dopo un saluto cordiale con gli amici della montagna che si erano uniti a noi per rendere quella meravigliosa giornata più allegra, incominciammo a mettere negli zaini quello che era rimasto. A comare Filomena furono restituiti i recipienti, ben lavati, che gentilmente ci aveva dato. Un pensiero per lei e per compare Giuseppe non poteva mancare. Un fiasco di vino, un bel pezzo di arrosto e un poco di salame, sebbene loro in montagna di questi insaccati erano maestri, mio padre li aveva messi da parte e le furono portati. Sempre Ciccio Crispo, intanto aveva provveduto a spegnere la brace e a rimettere tutto a posto sgomberando il prato dai residui.
A "Sansino" siamo arrivati in tempo per ammirare uno stupendo spettacolo della natura: il sole, che lentamente stava calando sul mare di Nicotera dietro un leggero strato di nuvole, inondava con fasci di luce soffusi la vallata del Mesima-Marepotamo, disegnando, con tocchi magici di ombre e di colori, uno scenario di incomparabile bellezza che io non riesco ora a descrivere come meritava. Alcuni pastori, intanto, risalivano dalla valle con il loro gregge.
In paese giungemmo che già era sull'imbrunire. A casa i miei ci accolsero sorridenti e mia zia, rivolgendosi verso mio padre con tono scherzoso, disse: "puru tu vecchiazzu!" (anche tu vecchio!) Io mi gettai sul mio lettino stanco, ma felice. Da allora sono passati tanti anni, eppure quella giornata, così semplice e modesta, mi è rimasta scolpita nel cuore e giammai il tempo riuscirà a cancellarla.
Se chiudo gli occhi rivedo i volti a me più cari e quelli giovanili dei miei amici che il tempo, le avversità e le vicissitudini della vita hanno poi inesorabilmente portato in luoghi diversi e terre sconosciute, lontani dagli affetti familiari e dal tanto amato borgo natio.
Come per incanto, mentre scrivo, me li son ritrovati tutti vicini, allegri e spensierati e insieme abbiamo rifatto "la scialata".
A loro con immenso amore dedico questo mio affettuoso antico ricordo: Graziano Schiavello riposa in un cimitero di Melbourne; Domenico Natale e Ciccio Crispo in quello di Buenos Aires; Roberto Pitisano a Punta Ala; Romano Figliuzzi a Fabrizia; Ciccio Figliuzzi a Roma; Mio padre, Ciccio Pitisano, Nazzareno Rosano nel cimitero di Limpidi.
11 gennaio 2013, Ubaldo Doré