Subito dopo Natale o poco più in là, verso carnevale, nei paesi come il nostro, c'è da tempi remoti l'uso di uccidere il maiale. Nei tempi antichi era una necessità o un lusso in più poter allevare un maiale da sè e poi conservarlo e consumarlo per tutto l'anno, oggi, penso sia più una tradizione e una ricerca di disponibilità e genuinità in più visto che ormai sul mercato si trova di tutto e di più ed anche a buon prezzo. Quasi tutti, nei paesi avevano un orto dove allevare il "famoso" animale, oppure s'industriavano di allevarlo insieme a parenti ed amici dividendo le spese, o tutt'al più acquistandolo dai macellai, ma in casa, sicuramente non mancava mai qualche salsiccia, soppressata o capocollo ben fatti da mani esperte e sapienti. Il maiale allevato personalmente, era sicuramente più genuino e ben ingrassato con i resti di pranzi, verdure e solo con l'aggiunta di qualche cereale acquistato. In tempi lontani, quando la carne era una cosa rara e costosa, il maiale diventava un bene prezioso per intere famiglie che letteralmente non buttavano via nulla del prezioso tesoro. Quando arrivava il giorno stabilito per l'uccisione, tutto veniva predisposto per l'occorrenza e siccome c'era bisogno di aiuto, si invitavano parenti ed amici ricambiandosi l'un l'altro. Quel giorno, seppur faticoso, diventava una specie di festa dove si riunivano intere famiglie. La mattina di buon'ora, le donne di casa preparavano il fuoco, spesso direttamente sulla strada vicino a casa, mettendo su le antiche caldaie di rame o chi non l'aveva dei semplici fusti riciclati. L'acqua bollente serviva a spellare e in un certo senso a disinfettare l'animale. Chi l'aveva usava una vecchia madia per adagiarlo, altrimenti si usavano dei sacchi di juta. Quando gli uomini arrivavano dalla campagna col povero malcapitato, era già tutto pronto e in un battibaleno il povero animale era già steso. Inutile dire che era una scena straziante e molto crudele, se vogliamo, ma quello era... Le urla strazianti echeggiavano dappertutto e i bambini che capivano quello che stava succedendo, accorrevano allo spettacolo incuriositi. Io, bambina, mi nascondevo, ma era impossibile non immaginare. Gli anziani dicevano che se intorno c'era qualcuno che si dispiaceva, l'animale avrebbe sofferto ancor di più prolungando l'agonia e così, spesso ci mandavano altrove. Del maiale non si buttava via nulla veramente, forse solo le setole che altrove usavano invece per fare pennelli. Il sangue veniva subito raccolto in una ciotola e girato continuamente per non farlo coagulare. Con quello, insieme ad aromi, zucchero e cacao amaro, si faceva un dolce da spalmare come una crema che credo un pò tutti, ad Acquaro, almeno una volta abbiamo assaggiato ai miei tempi. Spelato, come detto, con abbondante acqua calda e l'uso di coltelli, il maiale veniva legato per le zampe posteriori, ad un arnese intagliato nel legno a forma di v rovesciata (juvu) ed issato in alto, di solito ad un balcone, per essere squartato. Questo era compito degli uomini esperti che sapevano dove mettere le mani e veloci toglievano i vari organi passandoli alle donne leste a raccogliere il tutto in bacinelle o antiche "limbe". Particolare attenzione era riservata alle budella del maiale che sarebbero servite poi, per gli insaccati. Una cosa curiosa che ricordo, era la preparazione della vescica che veniva lavata velocemente e subito gonfiata con un filo di pasta bucato, tipo un palloncino perchè altrimenti, raffreddandosi, non si poteva più usare ed era da buttare. L'operazione della squartatura, ho l'impressione che avvenisse in modo abbastanza veloce. Una volta raccolto il tutto, in casa, gli uomini cominciavano a disossare e le donne, la prima cosa che facevano era quella di farsi dare qualche pezzo magro più pregiato, da preparare per il pranzo. La carne fresca veniva semplicemente rosolata e bagnata con vino che spandeva un gradevole profumo, possibilmente in una teglia (teja) di terracotta e sul fuoco. Si continuava così tra lavoro di braccia, chiacchiere e un gustoso pranzetto, fino a sera (non mancava spesso una frittatina col cervello del povero animale) riducendo la carne in cubetti tagliati al coltello (poi sono arrivati i tritacarne), di diversi tipi. Una parte più magra e di un taglio più pregiato per le sopressate ed il resto per le comuni salsicce. Anche le interiora venivano sminuzzate per creare la famosa 'nduja che era una salsiccia più povera, oggi molto rivalutata. Le donne erano in queste cose, le più esperte e si occupavano della salatura e pepatura con un peperoncino piccantissimo preparato sul finire dell'estate per l'occasione. Dalle mani sapienti, venivano fuori capocolli e l'immancabile carne salata simile alla pancetta in vendita, ma ineguagliabile per piccantezza. Dei grossi pezzi di lardo con qualche striatura di magro, venivano messi, salati e pepati in abbondanza, a fare l'acqua in dei contenitori d'argilla (salaturi o limbe) per alcuni giorni e poi appesi ad essiccare. Il secondo giorno era quello dedicato alle salsicce e sopressate. La carne, lasciata ad insaporire ventiquattr'ore, veniva finalmente insaccata nelle varie budella ben pulite e disinfettate con acqua calda e limone per quanto possibile. Era sicuramente la lavatura delle budella, la cosa più antipatica ed incresciosa specialmente nei tempi antichi, quando non c'era acqua in casa e si lavavano al fiume nell'acqua gelida. Insaccato il tutto e formati i vari salumi, tutto doveva riposare a "fare l'acqua" e non restava altro da fare che i famosi "pruppuna e salimuari". Praticamente, gli ossi spolpati, avevano ancora qualche rimasuglio di carne che veniva via solo con una lunga cottura e così, si lavavano ben bene e venivano raccolti in un gran pentolone insieme alla pelle che diventava cotenna (frittula), dove bollivano per ore. Anche quello era un giorno di festa che vedeva riunita la famiglia e non mancava qualche donazione ai vicini. Scolati gli ossi, rimanevano i rimasugli di carne tenerissima che venivano raccolti in un contenitore a raffreddare e diventavano "salimuari", gradito alimento portato spesso in campagna come companatico o prelibato con una bella fetta di pane caldo appena sfornato. Il liquido della scolatura, filtrato per bene, raffreddando diventava il candido strutto che si usava tutto l'anno per condire o per i dolci di carnevale (nacatuli) o di Pasqua (tiralli). Dalle cotenne spesso si ricavavano delle gustose braciole ripiene solo di poveri ingredienti come aglio, prezzemolo e formaggio, anch'esse conservate nello strutto, venivano sciolte al bisogno. Cibi gustosi e genuini, ma pieni di colesterolo che però, tanti anni fa erano un vero toccasana per chi se li poteva permettere. Solitamente, quindi, la preparazione vera e propria del maiale, durava tre giorni pieni, poi, quando l'acqua amarognola della salatura era abbastanza, finalmente si appendevano i famosi salumi ad essiccare. Si preparava così una "naca" con dei ganci al soffitto dove si incrociavano delle canne secche a sostenere tutto il peso di quella carne. Da una buona asciugatura dipendeva una buona conservazione insieme alla giusta salatura. Sarebbe stato un grossissimo danno la perdita di un bene così prezioso che doveva durare per tutto l'anno. Per i primi giorni si usava mettere sotto un braciere con un bel fuoco per favorire l'asciugatura e poi si dava tempo al tempo controllando ogni giorno il lavoro e rigirando se necessario. L'odore acre e particolare invadeva la casa per un bel po', ma era certamente un odore molto gradito da tutti, per nulla fastidioso. L'intero anno era racchiuso in quegli sguardi lanciati a controllare con fiducia... L'ultimo atto era quello di pulire con un panno la muffetta che si era creata sui salumi e deporli a strati nelle belle anfore di argilla (giarri), ricoprendo il tutto dell'altro prezioso alimento che era l'olio d'oliva. Così, il maiale tanto curato per mesi, diventava sostanza concreta nelle case di tutti quelli che se lo potevano permettere e che spesso lo usavano anche come segno di riconoscimento per qualche favore ricevuto. Un salume casereccio era ed è, sempre gradito da tutti.