Raccolta delle olive - Proprietario dell'immagine: Barona Sabino

Dalle nostre parti, la produzione dell'olio è da sempre molto importante e curata. Questo perché, fino a qualche tempo fa, era l'unico sostentamento e poi perché quasi tutti hanno uno o più uliveti, mentre chi non ce l'ha spesso s'impegna a raccogliere quelle d'altri facendo a metà col raccolto. È un lavoro molto impegnativo che dura, a volte, anche mesi (in Sicilia, neanche ci credono che duri così tanto, abituati come sono, a sbrigarsi in pochi giorni...). Certo, i nostri alberi secolari sono enormi e il frutto molto piccolo e tenace e quindi non sono facili da bacchiare ("sdarramàre": far cadere giù a colpi di lunghe pertiche - "pìartica"). Si preferisce quindi lasciar fare alla natura e al tempo, poi, si sa, ogni regione ha i suoi modi di coltivazione e raccolta. Sul finire dell'estate, dopo aver provveduto ad una buona concimatura e zappatura in primavera, si deve preparare il terreno alla raccolta pulendolo dalle erbacce ormai secche. Si fa quindi la rastrellatura bruciando le stoppie e lasciando pulito. Una volta questo passaggio era molto importante perché la raccolta delle olive si faceva tutta a mano e quindi si cercava di pulire il più possibile, oggi, con l'uso delle reti, si fa un lavoro più grossolano. Si stendono, quindi queste lunghe reti plastificate che danno una mano preziosa durante l'inverno... Il primo raccolto inizia verso la fine d'ottobre quando si può già trovare la "rimùnda" (olive "deboli" che cadono subito) e poi si va avanti per tutto l'inverno ed anche primavera se il frutto è abbondante. Nei miei ricordi questo periodo, per noi ragazze che dovevamo aiutare la famiglia, era un po' antipatico, ma soprattutto faticoso per tutti. Si aspettava una bella nottata di vento che asciugava l'aria e la terra o i temporali impetuosi che ci regalavano belle sorprese per iniziare la sospirata raccolta. Partivamo al mattino presto spesso col freddo pungente che ci entrava fin dentro le ossa, ma quando arrivavamo a destinazione e vedevamo l'abbondanza di quelle "perle" nere, violette o ancora di un verde acerbo, dimenticavamo tutto ed iniziavamo a lavorare con cuore allegro. Non era raro sentirsi levare nell'aria dei canti spensierati per smorzare la solitudine, il tempo ed inframmezzare piacevolmente il faticoso e noioso lavoro che teneva occupati per giorni lontani dal paese... Si usava molto "u cernìjju", compagno inseparabile sia quando non c'erano ancora le reti che dopo. Era una specie di crivello a maglie molto larghe che, usato con gesti precisi dalle braccia (ci voleva un po' d'esercizio), faceva cadere foglie e sassolini e tratteneva le olive pulite che, lucide, sembravano confetti colorati. Era bello vedersi riempire i sacchetti di plastica ("cirmèja") uno dietro l'altro e si ringraziava Dio per l'abbondanza che sarebbe servita a sfamare famiglie intere per mesi in tutti i sensi. Dopo 3-4 giorni, o più a seconda dell'estensione del terreno, la raccolta terminava e si aspettava una "nuova caduta" naturale. Nel frattempo, il raccolto doveva essere trasformato in olio e quindi, dopo brevi accordi, veniva portato al frantoio ("trappìto", "olifìciu", "sansifìciu"). Quello era un giorno spesso speciale e soddisfacente perché il duro lavoro diventava concretezza. Di solito si era molto gelosi dei propri frutti e si preferiva tenere tutto a casa, altri, invece portavano direttamente al frantoio dove c'erano dei sorta di "loculi" ("zimbùni") numerati, dove le olive potevano "respirare" senza la plastica dei sacchetti... Si scaricavano poi, nella "trimoggia" che comunicava con le grosse macine, vere protagoniste che avevano il compito di frantumare le preziose bacche al meglio possibile. Questo compito toccava al "macchinista" che il solo dotato di esperienza, sapeva la giusta consistenza della pasta. Il frantoio era un po' come un luogo di ritrovo dopo giorni d'assenza dal paese, passati nelle varie campagne e, dopo aver affidato il carico alle macine, ci si sedeva vicino alla stufa che andava a sansa, lo scarto finale, e si scambiavano pettegolezzi spaziando dall'annata prospera o meno alle previsioni del tempo. Tutto questo, senza perder d'occhio il lavoro dei macchinisti che avevano il carico di spremere il più possibile da tanto lavoro... Era quella la tappa finale più importante che indicava se l'annata era provvidenziale o meno. Il frantoio era luogo, tetro e sporco, ma era in fondo, uno sporco che piaceva. Oserei definirlo uno sporco ecologico dove tutto trasudava olio. Quella poltiglia scura e quasi nauseante per il forte odore caratteristico, con qualche accorgimento, diventava "oro colato". Ricordo ancora quei rumori. Le macine che ruotavano lentamente con la loro mole, i carrelli spostati di qua e di là per essere portati sotto i torchi e lo splash della sansa senza vita, spremuta al massimo che andava a finire il suo ciclo nella montagnola vicino alla stufa aspettando di servire ancora come fenice che risorge. Ricordo il buon tepore di quel luogo, il vapore che esalava da sotto i torchi e l'odore acre che sapeva di buono soprattutto vicino alle vasche. Era lì che vedevi la magia. Come poteva quella poltiglia nera diventare ORO? "Il mago" era di solito il padrone del frantoio o il macchinista più esperto. Scendeva giù dove c'erano delle vasche piastrellate e da quel liquido un po' disgustoso, con un semplice piatto di stagno o alluminio, portava alla luce l'oro prezioso. Mi vengono in mente i cercatori d'oro con le mani nel fango. Anche loro, cercando, ma chiamando in aiuto la fortuna, portano alla luce pepite preziose, lì, in quell'anfratto nero e sporco, l'oro si modellava con tanto lavoro, con tanto sudore asciugato per mesi... Ecco, che arrivava il momento più bello in assoluto. Con maestria, l'olio veniva "nzumàtu" e messo in contenitori che il proprietario guardava con orgoglioso piacere pensando non più alla fatica, ma al dopo. Non di rado si usava portare del pane fresco per fare il primo assaggio ed era anche quello un momento speciale che solo chi l'ha provato lo può definire, soprattutto se ci aveva lavorato... Finito questo ciclo, il prezioso carico veniva riposto, anni fa, in giare di terracotta, poi nei "landiùni" (grandi fusti) oggi in contenitori più pratici e più igienici in acciaio. L'olio era ed è una manna preziosa. Serviva a sfamare tutta la famiglia, a regalarlo agli amici ed ai bisognosi, "ai santi" (venduto poi all'asta), a conservare prodotti, soprattutto i salumi, e perfino i residui venivano utilizzati per fare il sapone in casa. Se poi fortunatamente, e si sperava veramente questo, ne avanzava, veniva venduto a prezzo di mercato ai compratori d'olio. Era questa la gioia vera. La speranza di poter veramente dire che valeva la pena essere contadini, lavorare ancora la terra, sfiancarsi nel vero senso della parola quando non esistevano strade, ma solo stretti e ripidi sentieri dove potevi mettere solo un piede dietro l'altro e pregare di non rotolare giù portando un sacco sulla testa e per giunta dovevi risalire la collina e poi ridiscendere e poi risalire.... Quando te ne andavi a letto distrutta o ti alzavi piena di dolori ai muscoli e alle ossa, sotto il caldo trascinato, con la pioggia o peggio col gelo... Io l'ho fatto tutto questo, l'ho provato e se lo racconto non ci credono... forse pensandoci, non ci credo neanche io, né chi come me l'ha provato. In fondo, ma proprio in fondo, perché non sono poi passati così tanti anni, sembra tutto remoto... ma, questa, è un'altra storia...