Ancora oggi è molto diffusa in Calabria l'usanza di fare il pane in casa ed anche i fornai tradizionali con forni a legna, sfornano il cosiddetto "pane i casa" che si sa, col fuoco di legna, ha tutt'altro sapore. Nei paesi piccoli come il mio, chi non aveva il forno poteva contare sulla generosità dei vicini che ce l'avevano in qualche angolo d'orto, in garage, in cortile ecc. e lo prestavano volentieri a parenti ed amici che ricambiavano il favore regalando una bella pagnotta calda e l'eventuale aiuto per qualche servigio. Quando in passato non esisteva ancora il lievito di birra classico, per lievitare si usava il lievito madre ("lavàtu) che le nonne facevano impastando un pò di farina, acqua e sale e lasciavano ad inacidire. Questo impasto, era sempre tenuto da conto e formava una crosticina che nascondeva la pasta morbida. Quando serviva a qualche vicina, se ne prendeva una piccola porzione e la si regalava ("lavatìajiu") oppure si dava tutto e poi veniva restituito il pari impasto fresco, da conservare nuovamente, rinnovandolo. Per il pane si usa farina di grano duro o di mais anche miste. Da noi la farina bella bianca, quasi impalbabile come borotalco, la chiamiamo "farina hjuruta" e non ha nemmeno un granello di crusca ("canìjjia"). Quella di mais ("mìjjiu") serve a fare un pane più saporito, più consistente e soprattutto per i tradizionali panini di San Giuseppe ("pizzatèjia") Il giorno deciso per fare il pane, tutto doveva essere pronto: frasche in abbondanza "per fare" il forno, tovaglie o lenzuole pulite, madia ("majijia"), acqua calda ecc. Il pane s'impastava nella "majijia" aggiungendo alla farina setacciata col setaccio ("crivu") il lievito sciolto in acqua tiepida, piano piano, fino a creare un impasto appiccicoso. Si scioglieva pure il sale con l'acqua tiepida e s'aggiungeva continuando ad impastare. Di solito la quantità di farina era tanta perchè si usava fare pane in abbondanza e quindi, anche per impastare, c'era spesso bisogno di aiuto. Quando anche noi lo facevamo, aiutavamo mia mamma a girare la pasta sbattendola e dando pugni con forza per far amlgamare bene il lievito e far in modo che l'aria penetrasse in fondo, a renderla più leggera. Quando tutto era ben amalgamato e di consistenza omogenea, la pasta era pronta da tagliare in forme. Mi madre tagliava a tocchetti e sul piano infarinato in abbondanza della madia, velocemente creava ciambelle e pagnotte che venivano allineate su un ripiano ben distanziate. A questo punto copriva tutto per bene con un lenzuolo tenuto apposta o una tovaglia e se era inverno mettevamo sopra più coperte a riscaldare e far lievitare tutto velocemente. Dopo un'oretta, mia madre incideva il pane col coltello e soppesandolo capiva se era lievitato o meno decidendo se lasciarlo ancora un po'. Nel frattempo si era già provveduto a preparare il forno, di solito con frasche di ulivo che da noi sono molto facili da trovare. Il forno riscaldava subito l'ambiente e se era inverno, a quell'ora di primo mattino, faceva molto piacere starci intorno a godere del calduccio che emanava. Se era estate non era affatto piacevole fare il pane e noi bambine facevamo di tutto per starne alla larga. Quando il pane era ben lievitato, ed il forno pronto (lo si capiva dai mattoni della cupola imbiancata dal calore), mia mamma tirava in avanti la brace e la copriva con una vecchia tegola ("ceramìda") per non scottarsi e poi puliva ben, bene tutto il forno dalla cenere rimasta, con un attrezzo inventato che consisteva in un lungo manico con all'estremità dei cenci ben attaccati con fil di ferro ("càjipu"). Oggi ci sono in commerce apposite scope ricavate dalla palma nana soprattutto in Sicilia. Questo veniva bagnato in un secchio tenuto vicino e con movimenti veloci in un attimo il piano del forno (visula) era ben pulito. Dopo questo, s'infarinava per bene una pala di legno col manico lungo e sopra venivano adagiate le pagnotte ("panìatti") e le ciambelle ("curuji") ad una ad una ed infilate nel forno dalla maestria della mamma che sapeva come metterle e farcele entrare tutte. Quando il forno era quasi pieno, davanti metteva delle pagnotte stese e allargate con le mani perchè non gonfiassero tanto e cuocessero subito (pitte). Da questo è nato il detto "Pari na pitta avanti furnu" (Sembri una "pitta" davanti al forno) per indicare una persona che sta sempre davanti a tutti quando c'è da vedere qualcosa e naturalmente, inteso ironicamente, intralcia gli altri. Quando tutto il pane era infornato, chiudeva la bocca del forno con la sua chiusura di ferro per trattenere ed espandere il calore, che chiamiamo "timpagnu". Il pane cuoceva per una buona ora sorvegliato a vista in continuazione, dalla mamma perchè non bruciasse, ma non nella prima mezz'ora per non interrompere la lievitazione e farlo sgonfiare. Le prime a cuocersi, erano naturalmente le pitte che venivano di solito tagliate con l'aiuto di uno spago, in due parti e rimesse alla fine dentro per diventare pane biscottato come le più piccole freselle in commercio. Qualcuna veniva anche lasciata da mangiare imbottita con le prelibatezze che si avevano in casa o con semplice olio e origano. Inutile dire che ormai il buon profumo di pane caldo aveva già pervaso tutta l'aria del vicinato... Una volta cotto veniva tolto dal forno e scelto. Scelto, nel senso che, qualcuno si lasciava per i giorni a venire, visto che si manteneva morbido a lungo, qualcun altro doveva essere regalato a parenti ed amici e un altro più ben fatto e cotto, naturalmente doveva essere regalato alla padrona del forno insieme ad una "pitta". Il resto veniva tagliato a "frese", le pitte di cui sopra con lo spago, altri a fette che sarebbero rifiniti ancora in forno a diventare pane duro biscottato. Per diventare duro veniva rimesso in forno per qualche giorno e qualche notte. In tempi in cui non esistevano i congelatori e non tutti avevano il forno in casa per poterlo fare spesso, questo era un ottimo metodo per conservare a lungo "il pane di casa" che veniva poi custodito in sacchi di tela ("cirmi") ben legati e riposti al sicuro nelle cassepanche ("casce") o in dispense. Al bisogno veniva bagnato in acqua o brodo e consumato per zuppe, ma anche rosicchiato al naturale.
Chiapparo Anna Maria 2012
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